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Marianna Fontana in Luce
Il rapporto ontologico fondativo tra quello che si definisce cinema del reale con la realtà filmata si basa sulla pretesa che quest'ultima venga restituita esattamente come è, manifestata senza alcuna mediazione. Per antonomasia costitutiva distinto dalla finzione in cui tutto è manipolato per veicolare l'illusione o verosimiglianza, ma di natura malleabile e ibridabile, delle volte tale divisione va ad affievolirsi permettendo l'intersecarsi tra la concezione del vero come spazio aperto, luogo da ricercare e l'elaborazione dell'immaginario dell'illusione in un'alternanza ben amalgamata tra le stesse.
La seconda opera di artificio di Silvia Luzi e Luca Bellino, principalmente dediti al documentario, è una risultante di questa integrazione: Luce è la simulazione al servizio del reale. In un indefinito paese del sud Italia, una giovane vive la tediosa monotonia tra il lavoro nella fabbrica di pellame, la solitaria routine casalinga e i pochi rapporti sociali con colleghe e familiari.
Durante una comunione, la vista del drone utilizzato per le riprese le fa venire in mente un’idea che le permetterà di riconnettersi con un grande assente dando il via ad una densa corrispondenza telefonica. Sarà il carteggio vocale ad innescare discrepanza tra diversi piani di visione. Quello di cui si parla non si vede e quello che si vede non coincide con ciò che il dialogo riversa nel fluire del quotidiano.
Un cortocircuito che favorisce la sovrapposizione di plurimi livelli di valutazione nei quali la realtà si ibrida con l'apparenza. Il racconto, a tratti neorealista, della durezza della professione e la precarietà delle relazioni si determinano per descrivere l’ordinario mentre la scorrevole verbalizzazione tra i protagonisti, uno presente e l’altro intangibile, fa da contrappunto espositivo di irrealtà. Solo in quel dialogare la donna può spacciarsi altra inventando una sé diversa, accattivante e risoluta, sempre umanamente fragile.
“I desideri sono meglio delle promesse”, dice, lasciando intuire un’esistenza dove queste non sono state mai mantenute e dove vige l'indispensabile anelare a un tempo prospero vagheggiato. È il ritratto di un carattere femminile, lodevolmente incarnato da Marianna Fontana, nel pieno della disobbedienza alla ricerca dell’estraniazione tramite la guida di una voce (quella di Tommaso Ragno) seppure ambigua, fondamentale nel metabolizzare il passato e instradare il futuro. Prendendo in prestito i canoni del genere d'appartenenza, gli autori inscenano la normalità polverosa di ogni giorno, votata alla sopravvivenza più che all'appagamento, modesta e spoglia di qualsivoglia manierismo.
La cornice e il fulcro sono poco illuminati, disadorni, anche dal punto di vista recitativo scegliendo attori non professionisti a contornare la vicenda facendo sì che nonostante l'ormai familiarità con il modello “al telefono con uno sconosciuto”, il film determini un'anomalia interessante nel panorama nazionale. Alcune piccole debolezze di svolgimento ci sono, certo, ma l'azzardare è da complimentare soprattutto se fatto con così tanta coscienza.