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Low Tide
Periferia texana, terra arida che asciuga le esistenze. Come quella di un dodicenne e di sua madre, che vivono vite separate nella stessa casa: lei sempre assente, tra lavoro, sbronze e festini, mentre lui colma il vuoto bighellonando. La macchina da presa lo pedina, lo bracca, gli sta addosso nella sua quotidianità sempre uguale, nei vagabondaggi solitari, in cui l'azione diventa irrilevante, per soffermarsi sui dettagli accessori, di catalisi, nella cosiddetta “narrazione dei tempi morti”. E lui, immerso nei suoi pellegrinaggi in mezzo alla natura, è un pesce rosso in cerca di acqua (come quello che custodisce in un vaso), in cerca di quel liquido amniotico che lo riconduce alla madre. Ma lei non c'è - e quando è presente il loro distacco è sottolineato dalla disposizione prossemica dei personaggi - e l'acqua è solo fango che scorre tra le crepe del suolo, ghiaccio che raffredda i pensieri o un fondale marino dipinto sulla parete della sua cameretta-acquario. E poi docce, impianti di irrigazione e pioggia, che lavano, ma non dissetano.
Un climax ascendente che parte dalla “bassa marea” - quella del titolo - per arrivare alle onde alte del mare aperto, quelle che ri-generano, che cullano madre e figlio in un abbraccio finale da brividi. Un film fatto di silenzi e di attese, quello di Roberto Minervini, opera seconda della sua “trilogia texana” sull'America svantaggiata, sul mondo della subcultura, composta dal precedente The Passage (2011) e da un terzo film attualmente in lavorazione. Un racconto di formazione ispirato a vite reali (a quella dell'infanzia di un bluesman del profondo Texas, 'Mean' Gene Kelton), una storia apparentemente banale. Ma il film cattura, incanta: dialoghi quasi inesistenti (“mum” si fa parola-emanazione, e ogni volta colpisce come un proiettile, come una freccetta lanciata sul muro nei pomeriggi di solitudine), un canovaccio per sceneggiatura, attori non professionisti e una messa in scena che parte dalla pelle del protagonista per distillarsi fra le sfumature del suo sguardo. E quest'ultimo si distende in un tempo dilatato, che sembra scorrere circolarmente su se stesso, lasciando trapelare le emozioni del personaggio e dell'attore insieme. Né cinéma vérité, né documentario quindi, ma un cinema che mette in evidenza lo sguardo per indagare la realtà nei suoi più profondi recessi, vicino alla poetica e all'estetica dei Dardenne (non a caso c'è il tocco della montatrice Hélène Dozo dei fratelli belgi). Un'opera coraggiosa (e low budget) di un italiano emigrato negli Stati Uniti, che riesce a sperimentare e a regalare suggestioni.