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Magra ma una consolazione c’è per Isabelle Huppert: un’altra attrice francese di razza, Juliette Binoche, ha recentemente dato un ritratto inautentico, non credibile di una fotoreporter di guerra, ovvero Juliette Binoche in A Thousand Times Goodnight di Erik Poppe.
Stavolta tocca alla Huppert nel primo film ospitato in Concorso a Cannes del norvegese Joachim Trier, Louder than Bombs: confuso, zeppo e insieme vuoto, incongruo e solo in qualche sparuta sequenza fascinoso, non va. Proprio non va: La Hupper interpreta la reporter di guerra del NY Times: è morta in un incidente automobilistico, o forse suicidio, e ha alsciato su questa terra il marito professore (Gabriel Byrne, ignavo di ruolo e di fatto), Il figlio più grande Jesse Eisenberg - i suoi capelli lisci dicono bene di quanto vedremo… - e il più piccolo Devin Druid.
Tutti e tre ugualmente e differentemente disturbati, incapaci di elaborare il lutto e rifarsi una vita: si evitano, il piccolo con il padre, si parlano senza dirsi, il grande e il padre, si confrontano, i due fratelli, per la sventura dello spettatore, perché il piccolo ha composto una specie di poema bimbominkia e il grande certifica il capolavoro tradotto visivamente da Trier con un collage altrettanto sghembo. Mashup, tristesse. I
nsomma, un altro film che corre per la Palma ma non si sa perché: Huppert – un lungo primissimo piano ne ribadisce il potenziale espressivo – che rifà se stessa in un film bislacco, Eisenberg che si ritaglia qualche bel momento (ma con quei capelli) e, infine, la sensazione che tutto quel che si poteva sbagliare lo si è sbagliato. Louder than Bombs suona davvero paradossale, poveri Smiths...