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Lost Country
La grande occasione del cambiamento al crocevia della speranza, il desiderio di congiungere il personale nel collettivo, l’ambizione di un popolo che si riflette nelle aspettative delle nuove generazioni. È la brace che divampa sotto le fiamme di Lost Country (in concorso al XXVIII Tertio Millennio Film Fest), che segna il ritorno di Vladimir Perišić a quattordici anni dall’esordio Ordinary People, e che nel titolo contiene le coordinate emotive e politiche per orientarsi in un racconto nazionale capace di farsi atlante europeo.
È quasi l’anatomia di una nazione, con Perišić impegnato a refertare patologie e necrosi della Serbia dell’ultimo pezzo di Novecento: quella dominata da Slobodan Milošević, presidente dal 1989, caduto in disgrazia tra la fine del secolo e l’inizio del nuovo millennio e infine morto in carcere nel 2006. Tra i massimi responsabili delle guerre nell’ex Jugoslavia, successivamente accusato di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica contro i musulmani, Milošević è figura preminente di Lost Country, restituita non per mezzo di un racconto biografico ma attraverso la vicenda di una famiglia falcidiata dalle sue azioni e dal suo impatto. Il che rende lo spaccato storico ancor più forte, non fosse altro che Perišić fa dialogare – anzi: scontrare – la sfera pubblica con quella privata in un dramma al calor bianco.
Il conflitto è centrale: nella Serbia del 1996, il quindicenne Stefan (il clamoroso Jovan Ginic, vincitore del Prix Louis Roederer de la révélation alla Semaine de la Critique a Cannes 2023) è suggestionato dagli amici politicamente impegnati a manifestare in piazza contro il regime, ma allo stesso tempo deve fare i conti con l’amata madre (Jasna Đuričić, presenza naturalmente monumentale come pure in Quo vadis, Aida?), che è portavoce del governo quindi complice del tiranno.
Il punto di caduta è personale, poiché la madre di Perišić era effettivamente nell’entourage di Milošević benché con un ruolo minore, e su questo côté privato si edifica l’autenticità struggente e brutale di Lost Country: l’inevitabile coming of age di Stefan deve scegliere da che parte stare, se dare retta a ciò che passa davanti ai suoi occhi e a ciò che gli viene dato per vero dall’autorità materna: le elezioni sono state truccate come dice l’opposizione? I manifestanti vengono davvero caricati e torturati dalla polizia? La corruzione è solo opera della propaganda?
È un film che luccica nel crepuscolo, Lost Country, scritto dal regista insieme ad Alice Winocour, impreziosito dai contributi di Sarah Blum e Louise Botkay (la fotografia granulosa e contrastata), Olivier Goinard e Roman Dymny (suono), Jelena Maksimović (montaggio). Inquadra la crisi di un’Europa con le guerre in casa, le conseguenze del crollo del blocco sovietico, la negazione dell’ideale socialista, l’annichilimento di una lost generation schiacciata tra le macerie del secolo breve (sprazzi felici compresi: l’incipit con il nonno ex campione d’atletica è il simbolo di un passato che è stato anche glorioso) e i lapilli di un sogno già infranto.
E questo posizionamento storico così preciso riesce anche a trascendere le contingenze cronologiche permettendo al film di portare in dote un’attualità sconcertante, non solo per un discorso politico davvero potente nella stagione delle democrazie autoritarie (i governi dell’estrema destra) ma anche per come entra nell’intimità tempestosa di un giovane spaesato e di una straziante relazione madre-figlio che fa a meno della figura paterna (che sia appaltata simbolicamente allo stesso tiranno?). Inesorabile e stratificato, teorico nel suo ragionare sui rapporti di forza e coinvolgente per la capacità di restituire per immagini concetti e allegorie, Lost Country è grande cinema europeo.