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Los años nuevos
Sì, Rodrigo Sorogoyen, il più importante regista spagnolo emerso nel terzo millennio, è diventato celebre grazie a thriller tesi e inquietanti, ma all’origine del suo percorso c’è anche un piccolo – e memorabile – film romantico come Stockholm, incanto notturno tra due giovani che si incontrano, si innamorano ma non resistono – forse – all’alba. E mettiamoci pure Madre, straordinario ritratto di una donna in lutto, commovente all’ennesima potenza con un piano sequenza iniziale entrato nelle antologie.
Tutto ciò per dire che nel gesto di Sorogoyen c’è il segno del melodramma, con la consapevolezza che in ogni storia nera c’è il dolore per un amore finito, e c’è l’appuntamento con la trenodia sentimentale, intessuta di ricordi incastonati nel rimorso ed occasioni mancate al crocevia delle scelte. Con Los años nuevos, Fuori Concorso a Venezia 81, terza avventura seriale del regista dopo Apagón e soprattutto l’amara corale poliziesca Antidisturbios, Sorogoyen racconta dieci anni di un amore in dieci episodi che si concentrano attorno alla giornata (notte prevalentemente e va da sé alba) di Capodanno, partendo dalla metà dello scorso decennio e arrivando all’anno in corso. I protagonisti sono Ana e Óscar, trent’anni all’inizio, vite irrisolte e futuri incerti: si incontrano, si riconoscono, si innamorano.
La storia di tutte le storie d’amore, una canzone da cantare sovrapponendosi alla voce dell’interprete (il repertorio musicale è ricco, preciso, eterogeneo), un catalogo dei furori e dei dolori di un ménage che risplende nel desiderio (l’erotismo è decisivo), viene messo alla prova, si incarta, va dove vuole e, all’improvviso, si ritrova per caso, perché il destino è quello che è e non possiamo fare altro che subirlo, assecondarlo, accompagnarlo. Creata con Sara Cano, Paula Fabra, diretta con Sandra Romero e David Martín de los Santos, Los años nuevos (cioè i capodanni) è un romanzo struggente e travolgente, autentico nell’adesione a un lessico sentimentale che appartiene a ognuno di noi, appassionato nel plasmare le immagini di un quotidiano che si fa monumentale, preciso nell’intercettare i cambiamenti della società e gli stravolgimenti del mondo senza restarne prigioniero.
E così, in questa catena di atti unici (le coordinate spazio-temporali favoriscono una dimensione anche teatrale, una presa diretta sulle cose che accadono senza ricorrere a didascalismi e spiegoni), dove convivono rocamboleschi e tesissimi cenoni di famiglia e spericolate serata nei club di Berlino, entrano in scena i dilaganti servizi di take away (che messa così ha poco interesse, ma è invece un elemento fondamentale dato che c’è un incontro tanto prevedibile quanto spiazzante per l’economia registica, complice l’ineluttabile struggimento di un fuoricampo) e la pandemia da Covid con tutto ciò che ha comportato nei rapporti personali.
Los años nuevos si staglia come una specie di incrocio tra Scene da un matrimonio e Normal People, sotto le stelle di Cassavetes (i volti sono i paesaggi più affascinanti) e nel segno di Linklater (il tempo che ci vuole è quello che ci rimane), dove l’inquadramento nel particolare testimonia la vocazione all’universale con le apparizioni finali di coppie parallele a quella principale (formata da Iria del Río e Francesco Carril, clamorosi). E tra i finali, tutti dilanianti, citiamo almeno l’ultimo, davvero indimenticabile.