Alcuni film sono una dichiarazione di essenza. Un modo per dire “ci sono”, per ricordare che quel cinema esiste e c’è sempre stato. E non importa, tutto sommato, quanto siano realmente riusciti o meno perché l’importante è proprio questo, sapere che c’è: L’orto americano di Pupi Avati, girato a 85 anni, film di chiusura del Festival di Venezia 2024 e ritorno al gotico padano che lo stesso regista ha inventato, rifatto proprio nell’età più matura della vita come il serpente che si morde la coda. Il film è tratto dall’omonimo romanzo L’orto americano, dello stesso autore bolognese, di cui peraltro cambia alcune curve minori e sfumature nell’intreccio, dimostrando consapevolezza della differenza che c’è tra la pagina e lo schermo. Siamo a Bologna nel 1945. L’Italia è appena uscita dalla seconda guerra mondiale: un giovane scrittore (Filippo Scotti) proprio mentre è seduto dal barbiere intravede una ragazza americana, una nurse, e se innamora perdutamente.

La splendida modella Mildred Gustafsson diventa per lui un fantasma d’amore: una visione da rivedere, una chimera da ritrovare. Grande sarà lo shock di apprendere che Barbara è scomparsa, non si trova più, come lo informa la madre interpretata da una Rita Tushingham estratta da Il nascondiglio, più anziana e rugosa. Le uniche altre “persone” con cui parla sono i suoi morti, collezionati in vecchie fotografie. Ed ecco la prima traccia soprannaturale: il ragazzo ascolta un richiamo, una voce notturna che lo conduce nell’orto della tenuta (americano, ovvio) in cui giace un’urna che contiene organi genitali femminili e una strana iscrizione. È il vero innesco della storia, che porterà Filippo Scotti a percorrere una strada nerissima, un’avventura oscura che lo conduce al processo contro un assassino, un serial killer ante litteram che potrebbe avere ucciso anche Barbara. Naturalmente le cose sono più complicate, la verità è ancora da scoprire e il protagonista cammina sul tessuto molle della realtà in bilico tra normalità e follia, visto che lui stesso potrebbe ricadere nel disturbo mentale…

Pupi Avati convoca tutto il suo cinema gotico, ma non solo. La storia del genere viene mescolata e frullata nell’intreccio, anche improbabile, che si muove tra spettri e maniaci di carne, principiando in un orto maledetto che sembra uscito da B-movie come Motel Hell; il gioco delle citazioni guarda principalmente al cinema americano degli anni Quaranta, basti pensare a Laura di Otto Preminger mettendo a confronto il volto di Gene Tierney con quello della Gustfasson… E l’eterna lezione di Hitchcock si affaccia da più lati nello scorrere degli eventi. Restando all’opera di Pupi, invece, è soprattutto L’arcano incantatore che si riversa nella prima parte, laddove si evoca un’atmosfera magica e misterica, lasciando sospettare un’altra dimensione esoterica solo un passo di lato dalla nostra. Poi, quando inizia il movimento del ragazzo, ecco che il film si immerge nella nebbia padana e torniamo davvero a La casa dalle finestre che ridono, esplicitamente citata nella dimora galleggiante del finale. Del resto Avati evoca quel modo di fare cinema con una struggente citazione, in voce fuori campo di Scotti, col giovane che si reca nel punto esatto del Po che fa da intersezione tra l’acqua dolce e quella salata del mare… Un luogo stregato che a sua volta diviene punto di congiunzione tra il passato e il presente del regista, dimostrando chiaramente che il gotico c’è ancora. Anche se è un canto del cigno.

Poi, se entriamo dettagliatamente nelle pieghe della trama, si possono trovare momenti deboli e istanti che sfiorano il ridicolo involontario, come l’apparizione di Andrea Roncato che non è chiaro se leggere al primo grado o col filtro dell’ironia; ma tutto questo ci può stare, considerando che è tutta una grande “riunione” e il regista chiama alla festa di morte i volti consueti come Chiara Caselli. Il bianco e nero è affascinante e mesmerico, grazie alla fotografia di Cesare Bastelli, l’ingenuità imberbe di Filippo Scotti gira alla perfezione, l’atmosfera romantica decadente intriga e inquieta. Il risultato è molto superiore a Il Signor Diavolo. Per tutte queste ragioni una passeggiata ne L’orto americano suona come un gesto residuale, arcano, finale e per questo quasi commovente. Non c’è altro da dire: c’è solo da vedere.