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Giorgia Faraoni ne L'origine del mondo (2024)
C'è qualcosa di intrinsecamente silenzioso nei volti che Rossella Inglese sceglie di abitare. Non sono i volti a parlare, non davvero. Sono le pause. Le ombre dietro le pupille. Le cose non dette che gravano sulle immagini come un cielo basso, una pressione barometrica dell’anima.
L’origine del mondo è un titolo che inganna. Non c’è nulla di originario qui, e il mondo – quello vero, quello largo, sporco, incostante – pare essere rimasto fuori campo, oltre le quinte, come un rumore sommesso che nessuno ha voglia di ascoltare. È un film che si chiude su se stesso, come una stanza troppo abitata dal dolore. Eppure c’è un talento, c’è una mano che sa vedere. È questo lo scarto, la tensione. Un’opera prima che sembra avere già il peso di un commiato.


Giorgia Faraoni, giovane, intensa, attraversa la scena come se portasse addosso tutto ciò che non si può dire. Il suo corpo è il luogo del trauma, un terreno smosso da qualcosa di antico, oscuro. Ha un segreto, sì, ma il segreto non è mai la cosa in sé. È il modo in cui si muove nello spazio, il modo in cui guarda Rongione, l’uomo più grande, l’uomo ferito, l’uomo che forse ha già smesso di chiedere perdono. Le loro ferite si attraggono. Si studiano. Si annusano come animali selvatici in cerca di riparo.
Rongione, preciso, cesellato, la osserva come si osserva una possibilità non prevista. L’alchimia è muta, quasi involontaria. E proprio per questo, credibile. Forse il film è tutto qui: in loro. Nella capacità di stare sul limite, di non cadere mai nel patetico.


La regista e sceneggiatrice Rossella Inglese
La storia – che potrebbe essere un altro film, uno dei tanti – non è il punto. È già vista, sì. Ma non è qui per sorprenderci. È qui per essere attraversata, come un fiume. La forza del film non risiede nel “cosa”, ma nel “come”. E questo “come” ha un respiro tutto suo. Lento, sotterraneo, incalzante e a tratti quasi ipnotico. Un respiro che non segue la grammatica del cinema narrativo tradizionale, ma quella più misteriosa del corpo, della memoria, del trauma che si fa carne. È la mancanza di ossigeno attorno, il vuoto che circonda i protagonisti. Un mondo assente, evacuato, forse intenzionalmente. Ma in questa scelta stilistica si annida anche il rischio del manierismo: l’universo si stringe, le possibilità si consumano.
È un cinema che si muove per omissione. Per accumulo di silenzi, di sguardi trattenuti, di gesti che sfiorano ma non afferrano. La freschezza non è nel racconto, ma nella postura dello sguardo. Inglese guarda i suoi personaggi con la cautela di chi ha paura di romperli. O di essere rotta con loro. È uno sguardo già maturo, che sa stare fermo, sa attendere. E non cerca di dimostrare niente.
Rossella Inglese dimostra una maturità di sguardo che colpisce. Se si può dire che a questo esordio manchi qualcosa, non è freschezza nel senso banale del termine, ma forse solo uno scarto narrativo che possa sorprendere.
L’origine del mondo , d’altra parte, non vuole essere un film su tutto. È un film che sa restare piccolo, concentrato, claustrofilo. E proprio in questa chiusura sta la sua apertura: lascia uno spazio, una fenditura. Qualcosa che chiede di essere seguito.