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L'orchestra stonata © Thibault Grabherr
Bisogna accettare le regole del gioco per potere apprezzare un film come L’orchestra stonata . Il dover arrivare dove si vuole anche a costo di sacrificare il come. Forzature. Non è tanto per l’innesco fortunoso – un rinomato direttore d’orchestra scopre non solo di avere la leucemia ma di essere stato adottato, e che l’unico donatore di midollo osseo disponibile sulla piazza è un fratello mai conosciuto che vive nel distretto operaio di Lille, nel Nord della Francia – perché di casi anche più stravaganti la cronaca ci delizia ogni giorno. Ma per le simmetrie esibite di un film che fa dell’onesto cinema senza lampi di vita.
Non bisogna neppure fare chissà che sforzo d’immaginazione per individuare quale sia il lignaggio dell’operazione: produce la Agat Films & Cie di Robert Guédiguian, la cui impronta sentimentale e schiettamente proletaria è evidente in questo terzo lavoro da regista e sceneggiatore dell’attore Emmanuel Courcol (specializzato in serialità televisiva). Apprezzabile il fatto che l’ancoraggio emotivo dell’operazione affondi solo in minima parte nel terreno sempre delicato del tema ospedaliero (l’esperienza della malattia di Thibaut, molto sfumata) e sia invece affidato alla narrazione della famiglia, del che cosa significhi averne una - di sangue e non - e di quale potere curativo sia capace nel combattere sofferenze, insicurezze, solitudini (le vere malattie da curare).
E si comprende allora come il ritrovarsi, poi riperdersi e infine riconoscersi tra l’esponente agiato di un élite culturale (Thibaut) e il figlio di un proletariato fiero se pure in dismissione (Jimmy) sia l’espediente per celebrare un’auspicabile fratellanza di classe, che includa intellettuali e operai lasciando fuori capitalisti e politici al soldo. Utopia amabilmente ingenua come una commedia di Loach o una favola a lieto fine di Guédiguian. Autori a cui Courcol guarda anche nella scelta di ambienti, volti e colori, con quella miscela di solare e ruspante armonia che allevia ogni tensione e disinnesca con ironia i conflitti, che pure ci sono. Ma L’orchestra stonata guarda anche Il concerto di Mihaileanu non tanto per la drammaturgia in chiave di violino (laddove il film del regista rumeno però ha un ritmo e un’efficacia drammatica superiori) ma per lo spartito umanista che suonano entrambi. Anche qui con un climax finale sconsigliato a cinici e diabetici.
Dicevamo dei volti. Il lavoro sul cast è indubbiamente una delle carte vincenti dell’operazione: Benjamin Lavernhe, non lo scopriamo oggi, è un attore capace di portare a ogni ruolo che interpreta un tatto, una delicatezza che conquistano. In lui si esalta quell’attrazione della fragilità che pochi altri attori della sua generazione possono vantare. Esattamente all’opposto Pierre Lottin, che ha la robustezza sana e l’acume dell’uomo del popolo. Si dirà che anche fisicamente i due riproducono gli stereotipi dell’intellettuale gracilino e dell’operaio sanguigno, ma non sono certo gli unici cliché di un film che lavora proprio sugli hint e le rassicurazioni per un pubblico desideroso di uscire dalla visione confortato più che provocato.