La storia, il mito e Winston Churchill. Come ci insegnava John Ford in L’uomo che uccise Liberty Valance, ormai dobbiamo stampare la leggenda. Nell’immaginario comune, Churchill è il simbolo della lotta contro i totalitarismi, la voce fuori dal coro che si è rifiutata di scendere a patti con il Male e la sua svastica. La BBC, nel 2002, lo ha eletto come “il più grande inglese di tutti i tempi” e la sua popolarità all’ombra di Buckingham Palace ha raggiunto vette inavvicinabili. Anche le serie televisive gli rendono omaggio. Il Primo Ministro ha fatto la sua apparizione in The Crown e addirittura la serie videoludica di Assassin’s Creed ha messo l’eroe al servizio di questa grande mente in Syndicate, il penultimo capitolo della saga. Oggi arriva al cinema in Darkest Hour, pronto ad accendere la speranza nell’oscurità.

Siamo nel 1940, il nazismo dilaga e Hitler sta soggiogando l’intera Europa. Non è più tempo per il dialogo e per le politiche morbide: “l’Inghilterra ha la testa nella bocca della tigre”, tuona chi non vuole farsi sottomettere. Il primo ministro Neville Chamberlain dà le dimissioni e bisogna trovare una nuova guida. La Camera dei Lord è in subbuglio, il ministro degli esteri Halifax scalpita, ma non ha il coraggio di caricarsi la nazione sulle spalle. Il re chiama Churchill e lo incarica di formare un nuovo governo, mentre il mondo intero trema davanti all’avanzata tedesca.

Per i primi dieci minuti, il protagonista non compare. Viene introdotto piano piano, dai dubbi dei suoi compagni di partito e dalle maldicenze dell’opposizione. L’incontenibile conservatore entra in scena in vestaglia, con un sigaro in bocca e il volto di uno straordinario Gary Oldman. L’attore de La talpa è ingrassato, è senza capelli e ha le movenze di un egocentrico uomo d’età. Se bastasse un’interpretazione per giudicare un film, le stelle cadrebbero dal cielo.

Ma il regista Joe Wright sembra ancora sottotono dopo lo stravagante Pan. Costruisce Darkest Hour come una pièce teatrale, sempre ambientata in luoghi chiusi, nelle camere del potere dove si decide il destino di milioni di persone. Wright aveva fatto lo stesso in Anna Karenina, e non riesce però a ritrovare quell’anima visionaria che aveva tanto emozionato il pubblico. Qui trionfano l’enfasi, a tratti giustificata in uno scenario quasi apocalittico, e un’ironia spesso fuori luogo. L’obiettivo è quello di descrivere l’uomo, non il personaggio pubblico, e troppe volte la sceneggiatura tende a sdrammatizzare invece di puntare sulla fatalità del momento.

 

L’atmosfera si fa grave solo nella seconda metà del film, con il ritorno sul grande schermo dell’Operazione Dynamo, l’impresa dei trecentomila di Dunkerque, sugli scudi con Dunkirk di Christopher Nolan. Anche lo stesso Joe Wright ci aveva portati su quelle spiagge in Espiazione, con un piano sequenza di cinque minuti che trasudava puro amore per il cinema e per la materia. Qui il regista londinese non sa replicare se stesso e finisce con lo strizzare l’occhio a Il discorso del re di Tom Hooper. Dobbiamo solo sperare che Gary Oldman ci illumini nell’ora più buia.