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È un film sugli opposti quello di Giuseppe Piccioni. E l’intenzione appare già dal titolo: L’ombra del giorno. Ossimoro che mette in luce (e in ombra) la dicotomia di questa storia nella quale emergono tutte le fratture, le scissioni, i contrasti, le contraddizioni e le dualità dell’animo umano.
Ascoli Piceno, 1938. Sono gli anni dell’Italia fascista e delle leggi razziali. Tirano venti di guerra e per quanto Luciano (Riccardo Scamarcio), un uomo claudicante, reduce dalla Prima Guerra Mondiale e simpatizzante del fascismo, si nasconda dietro le vetrine del suo ristorante (lo storico Caffè Meletti), osservando il mondo con distacco, la Storia (l’inquietante camerata interpretato da Lino Musella) irrompe comunque nel suo locale. E anche l’amore, con l’arrivo di una giovane ragazza di nome Anna (Benedetta Porcaroli), da lui assunta come cameriera.
“M’illumina l’ombra”, scriveva Giuseppe Ungaretti. Ombra e giorno. Dentro e fuori, interno e esterno, diritti e doveri, eros e thanatos, fascisti e ebrei, i confini sono labili, oltre che spesso poco riconoscibili (“Ungaretti ha scritto delle poesie e nessuno si è reso conto che non c’è nulla di fascista nelle sue parole”), e la fragilità umana è il piatto principale servito e preparato in quella cucina che può essere luogo sacro, ma anche luogo dell’imbroglio.
Ci si muove nell’incertezza e nella paura di quei tempi, obbedendo/disobbedendo alle leggi, l’equilibrio è precario, ancora di più per il passo a due tra Luciano e Anna, che alternano come in una danza il Voi e il Tu. La fiducia c’è (Anna a Luciano: “Siete un bravo ragazzo”), ma fino a un certo punto (Luciano ad Anna: “E voi che tipo siete?”, Anna: “Non si vede?”, Luciano: “Non del tutto”).
Piccioni definisce il suo film “un Kammerspiel non claustrofobico”. Ed è vero. Per quanto ambientato quasi unicamente all’interno del ristorante, l’orizzonte è vasto. I punti di vista infiniti. Lo spettatore non guarda solo avanti, ma, come Luciano che lo ha imparato in guerra, si guarda intorno, a tutto tondo, grazie anche alla tecnica usata dal regista: il cinemascope, che allarga notevolmente il campo di visualizzazione.
Primi piani, sguardi, squarci e spiragli aprono mondi e raccontano pagine della nostra Storia, e una commovente storia d’amore rivoluzionaria, che vede protagonisti Scamarcio (finalmente in una versione più dimessa, lontano dai soliti ruoli del bellone) e la Porcaroli (perfetta nel rendere questa ragazza un po’ misteriosa).
Una favola da film? Fino a un certo punto, la realtà talvolta supera l’immaginazione e in linea con questo basta guardare anche il bel doc Se questo è amore di Maya Sarfaty, che raccontava la tragica liaison tra la deportata ad Auschwitz Helena Citron e l’ufficiale Franz Wunsch. È la vita e come canta nei titoli di coda Andrea Laszlo De Simone: “Vivo”.