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Lo scafandro e la farfalla
L'uno imprigiona, l'altra libera. Il dualismo de Lo scafandro e la farfalla ricorda quello tra corpo e anima. Ostaggi della fragilità del primo, liberi nel soffio elusivo della seconda. Schnabel però vuole affrancarsi da termini e dicotomie tradizionali. Prende la storia (vera) di un uomo che prima possiede tutto, poi perde tutto, infine guadagna la vita, per celebrare quello slancio creativo che, nella teosofia da artista, è nocciolo e superamento dell'umana finitudine. Protagonista è Jean-Dominique Bauby, affascinante caporedattore di una rivista di moda, separato dalla moglie, appagato dalla carriera, figliol prodigo e padre premuroso. L'esistenza che un attimo prima scorreva dimentica della sua provvisorietà, d'improvviso s'ingolfa, si blocca, risucchiata da un ictus, termine tecnico "locked in syndrome", che paralizza Bauby dalla testa ai piedi. Segue il ricovero ospedaliero, l'orrore dell'immobilità, la cura degli altri e il miracolo di una palpebra che ancora può muoversi e diventare tramite ultimo col mondo. Il battere e levare di ciglia si fanno segni di un inedito linguaggio grazie al quale Bauby riuscirà a dettare il proprio libro di memorie. Due giorni dopo la pubblicazione del diario, avvenuta il 7 marzo del 1997, Bauby muore per arresto cardiaco, all'età di 45 anni. Il percorso tracciato dal regista è ad un tempo inevitabile e radicale. Fuori da ogni logica di cinema ospedaliero, Schnabel si disinteressa a pietismi e piagnistei di genere - non preoccupandosi neppure di scansarli - per concentrarsi sulle trasformazioni di sguardo del protagonista, tanto in senso letterale quanto metaforico. Costringe lo spettatore a guardare non "alla" malattia, ma "dalla" malattia, utilizzandone l'ottica menomata. Così tra inquadrature sghembe, quadri atipici e vari disturbi alla visione, l'effetto che ottiene è doppio: un'identificazione con Bauby al limite del sopportabile, e la disponibilità di un'insolita gamma percettiva sulla quale giocare la propria sensibilità di pittore. Quando il protagonista scopre nell'immaginazione e nei ricordi un modo nuovo di afferrare il reale, il punto di vista registico si adegua, rompe lo scafandro, si riappropria del piano totale. Per arrivare all'immagine finale di una roccia che si sfalda e si ricompone grazie solo all'artificio del montaggio. Eloquente il messaggio: ciò che non è permesso alla natura è possibile all'arte. Cast perfetto, su tutti lo straordinario protagonista Mathieu Amalric, colonna sonora (da Tom Waits agli U2) furbetta, doppiaggio italiano mai come in questo caso inopinato.