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Può considerarsi fallimentare un'impresa che rappresenta il massimo dell'eccellenza tecnica di oggi e che è destinata a segnare in ogni caso la futura storia del cinema? Ebbene sì, Lo Hobbit fa anche questo. Il ritorno di Peter Jackson nella Terra di Mezzo è segnato da un paradosso: mantiene alti, molto alti, gli standard del fantasy hollywoodiano, coniugando gigantismo produttivo e piacere della narrazione, stupore infantile e riflessione adulta, intrattenimento di massa e cultura alta, artigianato e digitale, ma inciampa sul passo più ardito, l'esperienza visiva.
L'esperimento tecnologico voluto da Jackson, girare in 3D a 48 fotogrammi al secondo (per eliminare l'annoso problema della messa a fuoco della pellicola in presenza di movimenti vorticosi della mdp), lascia in effetti interdetti. Come già avevano messo in evidenza i critici americani, la tessitura delle immagini è talmente nitida ed esasperata nei dettagli da risultare posticcia. Sembra davvero di assistere a uno show televisivo in HD. Le scene, specie quelle in interni (vedi la riunione dei nani nella casa di Bilbo Baggins), esplodono in piena luce, una luce diafana che abbatte ogni separazione tra sfondo e primo piano e che restituisce immagini incorporee, fasci luminosi che si muovono a velocità innaturale. Pure silhouette digitali. Un effetto che finisce per penalizzare - annullare? - la resa in profondità del 3D.
Per il resto la seconda grande trasposizione di Tolkien su grande schermo ha la maestosità della prima trilogia, ma non lo stesso fascino. Il film risente dell'asincronia rispetto alla fonte letteraria. Se Lo Hobbit di Tolkien costituiva l'abbozzo, la premessa ingenua della grande epopea del Signore degli Anelli - quest'ultimo raccontava eventi accaduti 60 anni dopo ampliandone al contempo respiro, mitologia e ambizioni - al cinema le cose sono andate diversamente, inversamente: Il Signore degli Anelli, con i suoi viaggi, le terre, gli hobbit, i nani, gli elfi, gli orchi, i goblin, i troll e i gollum, c'è già stato. E' un immaginario che riproposto oggi, pur con tutta la maestria della squadra creativa di Jackson e della Weta (la maggior parte dei quali già premiati con l'Oscar grazie alla saga precedente: Andrew Lesnie alla fotografia, Dan Hennah alle scenografie, Howard Shore alle musiche, Peter Swords King e Richard Taylor ai trucchi, Joe Letteri agli effetti speciali), non ha uguale forza epifanica. Certo, gli innesti - primo fra tutti Martin Freeman nel ruolo di Bilbo giovane, ma anche lo stregone bruno Radagast (Sylvester McCoy), fiabesco ambientalista con escrementi di uccello a coprirgli parte del viso, e il re dei nani Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) - sono riusciti, la compagnia dei nani non ha nulla da invidiare a quella dell'Anello e le creture del male (dall'Orco Pallido e il suo mannaro bianco al Negromante, un po' meno il Drago Smaug) sono ancora una volta all'altezza.
Eppure il loro percorso narrativo risulta meno interessante, e non solo perché Jackson ci mette un'ora buona (su tre) prima di far decollare l'azione, ma proprio perché il viaggio di maturazione, la lotta tra Bene e Male, la sete di Potere, la fedeltà a una missione, erano tutti temi già ampiamente sviluppati dalla trilogia dell'Anello. Di nuovo semmai c'è il motivo del ritorno, la nostalgia di casa e la rivendicazione della propria terra, dalle reminiscenze bibliche (il re dei nani guida il suo popolo disperso come un fiabesco Mosé) e aperto a ogni tipo di lettura attualizzante. L'atmosfera è più distesa, il ritmo picaresco, lo spazio maggiormente verticale (le scenografie mirabolanti di Hannah rivisitano in chiave barocca le architetture impossibili di Escher). Ian McKellen, Andy Serkis (il Gollum) e Cate Blanchett garantiscono carisma e continuità tra le due trilogie. Ma "la nuova" resterebbe comunque superflua, se non fosse per quel tentativo pionieristico di spostare in avanti i confini della tecnologia e della visione. Scommessa fallita, lo abbiamo già detto, ma non peregrina. Dopotutto, dietro a ogni grande rivoluzione c'è una storia costellata di insuccessi.