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Bill Nighy in Living (credits: Ross Ferguson. Courtesy of Number 9 films / Sony Pictures Classics)
Più che un’operazione cinefila, Living ci sembra un atto di mediazione e riposizionamento di un testo classico, Vivere di Akira Kurosawa (1952), secondo lo sguardo di uno scrittore, il premio Nobel Kazuo Ishiguro, che vi porta dentro il suo orizzonte culturale.
Autore britannico di origini giapponesi, Ishiguro riprende esattamente quel film, ne asciuga la durata (102 minuti contro i 143 originali) e sposta l’azione dal Giappone alla Londra del 1953 ancora segnata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e dal “Grande Smog”, la catastrofe ambientale che colpì la città nel dicembre ’52 provocando circa 12.000 vittime. Siamo più o meno nello stesso anno di produzione di Kurosawa, esplicita professione di fedeltà, e tocchiamo significativamente l’estate dell’incoronazione della Regina Elisabetta, come a voler determinare la transizione tra due epoche.
Living funziona anzitutto sul piano del remake, perché Ishiguro usa lo strumento dell’adattamento per riappaesare personaggi e narrazione in un contesto capace di far rispecchiare la società nel privato e viceversa. La storia resta la stessa di Kurosawa, a sua volta ispirata a La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj: Mr. Williams (niente nome), un grigio burocrate, capo metodico dell’ufficio Opere Pubbliche di una contea, è costretto a confrontarsi con la diagnosi di un tumore allo stato terminale (preparandosi il discorso a figlio e nuora la definisce “una notizia spiacevole”, come a non voler tradire emozioni fino in fondo). All’improvviso capisce che deve mettere da parte la religione del contegno sempre professata per tutta la vita (“Ho sempre sognato di essere un gentleman”) e decide di imparare quella “fame di vita” incarnata da alcuni giovani con i quali si imbatte.
Diretto da Oliver Hermanus, Living gioca con un’ostentata fattura da falso storico, con titoli di testa che per immagini (formato, grana, font; fotografia di Jamie D. Ramsay) e suoni (musica orchestrale di Emilie Levienaise-Farrouch) cita e riecheggia il cinema inglese degli anni Cinquanta.
E tutto il film, con tagli di luce che sembrano provenire da una pellicola in bianco e nero, cerca di posizionare ogni cosa in quel momento storico, lavorando sulle possibilità date dal colore senza cedere al ricatto del vintage o all’ammiccamento rétro, come se Living fosse un coevo di Addio Mr. Harris, It Always Rains on Sunday o Chance of Lifetime (splendido, al solito, il lavoro della costumista Sandy Powell e notevole la ricostruzione ambientale di Helen Scott).
In questo senso Living appartiene tanto a Ishiguro quanto a Hermanus, ma forse il vero perno è Bill Nighy in quella che è (programmaticamente, ineluttabilmente, naturalmente) l’interpretazione della vita: minimalista nell’istinto, elegante e mai leziosa, asciutta senza essere sfibrata. Living gli somiglia: gentile, educato, toccante.
In un ruolo che gli calza a perfezione, per anagrafe ed esperienza, Nighy non fa mai un passo di troppo, soppesa ogni tono e fa montare al suo Mr. Williams un disperato desiderio di vivere ancora, una speranza che si fa manifesto esistenziale e politico, la dedizione come lezione da lasciare ai posteri. Resta il dubbio se sia necessaria la spada di Damocle di un male incurabile per poter dare una svolta a sé e agli altri, ma in fondo questa consapevolezza non fa che acuire la dolce tristezza della storia. C’è un monologo sulla fame di vita, in un pub, commovente nel senso più alto del termine e che dovrebbe garantirgli, in un mondo normale, qualche decina di premi.