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Little Jaffna
Gangster movie a sfondo etnografico, sgargiante nella color palette e vibrante nella denuncia, dal piglio antropologico e dall’afflato multiculturale, Little Jaffna è un film di buone intenzioni orfano di una certa radicalità e originalità espressiva. Un’opera che alla lunga si scopre, pur nella vena popolare, perfino didascalica e moraleggiante.
Ambientato nel quartiere parigino che titola il film, feudo di una vivace e orgogliosissima comunità Tamil, il film inquadra la parabola (discendente e ascendente) di Michael Beaulieu. Giovane, integerrimo poliziotto indo-francese di umili origini, scelto dalla Direzione generale per la sicurezza interna parigina per infiltrarsi e smantellare l’organizzazione indipendentista asiatica stanziata a Little Jaffna. L’obbiettivo per Michael è cruciale: sdoganare i traffici illeciti, le estorsioni, i finanziamenti verso lo Sri Lanka e ammanettare il temibile capobanda Aya. Tuttavia l’integrazione in una comunità che vive come un microcosmo tribale, in diffidenza con l’esterno occidentale, in unione simbiotica con i suoi membri avviene senza intoppi, rischiando così di compromettere carriera e missione.
Già da questi cenni di trama s’intuisce come l’esordiente Lawrence Valin – nella tripla veste di attore protagonista, co-sceneggiatore e regista di quest’opera prima che chiude la Settimana della Critica 2024 – non rubi l’occhio per forza e ricchezza inventiva. Infiltrati e spie insospettabili costretti a immergersi nel Male (la malavita) per restaurare il Bene (la legalità) in angoli metropolitani a densità multietnica presidiano da sempre il grande (e piccolo) schermo: forse il debito più marcato qui è contratto con Donnie Brasco per il laccio vitale che si stringe man mano tra infiltrato e capobanda. Affidamento, inserimento, accettazione, elezione, svelamento e redenzione sono gli snodi collaudati del sottogenere che Valin si premura di convalidare con fin troppa pedanteria.
Eppure su questa piatta riproposizione – non rielaborazione – cinefila, il cineasta sa restituire con immediatezza attualizzante lo sfondo etnico della storia, dando spazio con brillantezza (anche cromatica) a rituali, tumulti, speranze e scatti di dignità di una minoranza ancora sospesa tra due mondi: si intrattiene a lungo in case e scantinati di una comunità, come quella Tamil, ancora in cerca di inclusione piena nella Francia all’alba del Duemila (la storia si ambienta nel 2009), e insieme legata alla madre patria asiatica dov’è agli sgoccioli la guerra civile.
Oltre la buona direzione attoriale di un cast composto perlopiù da semiprofessionisti, Valin firma un esordio generoso, fiducioso in un futuro di legalità e giustizia, ma squilibrato: la componente spettacolosa dei frangenti action si rivela poco ispirata e con derive pulp, i colpi di scena gratuiti, la detective story in fondo, nella penuria adrenalinica, limitata e di servizio.
Sarà perché il centro è, come detto, altrove. Ma non basta un paradosso morale, non basta raccontare un’etnia e denunciarne un massacro per fare un film.