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L'isola di ferro
Intelligente e raffinata metafora della moderna condizione dell'Iran, presentata lo scorso anno alla Quinzaine des Realisateurs di Cannes. Surreale fin dalle premesse, il film del giovane Mohamed Rasoulof sceglie come microcosmo simbolico quello di una petroliera in dismissione nelle acque del Golfo Persico. A bordo una vera e propria città: un popolo di sfollati e senza patria, che fra grandi e piccini si è organizzato per provvedere a istruzione, cibo e lavoro, proprio come in qualsiasi altro angolo di terra ferma. E come in qualsiasi angolo di terra ferma, in questo francobollo di Iran galleggiante si riproducono però le stesse dinamiche che governano tutto il paese. Il prezzo di questa apparente normalità è la cieca fede nel capitano Nemet, paterno dittatore che riecheggia il Nemo del Nautilus e trasforma la nave nell'isola di ferro del titolo: una prigione dorata, in cui non tardano a manifestarsi tutti i meccanismi legati all'organizzazione sociale e alla convivenza forzata. Nemet dispensa consigli, amministra la comunità, dispone su vita e morte di tutti i suoi membri. Il tutto accompagnato da un occhio poetico, che si sofferma discreto sull'ordinaria poesia della quotidianità a bordo: dalle domande dei bambini, che interpellano il maestro chiedendogli se sono "nel mondo", alla parabola del piccolo "pesce-bimbo", così chiamato appartiene all'acqua, e all'acqua dovrà tornare.