Sono venticinque anni che Elisabetta Sgarbi, massima editrice italiana (ma sarebbe più giusto definirla operatrice culturale tout court, essendo l’editoria centro da cui si irradiano festival, eventi e, appunto, audiovisivo), si dedica indefessa anche al cinema (oltre 70 opere tra documentari, cortometraggi, lungometraggi e filmini musicali), trovando non di rado l’attenzione dei festival (e a onor del vero non del pubblico, quasi un assente preterintenzionale).

Con L’isola degli idealisti, Sgarbi arriva in Concorso alla XIX Festa del Cinema di Roma, portando in dote passione e sentimenti: un romanzo di Giorgio Scerbanenco perduto e ritrovato, pubblicato nel 2018 da La nave di Teseo; un impegno non estemporaneo (Sgarbi è anche sceneggiatrice con Eugenio Lio e montatrice con Andres Arce Maldonando, a sua volta direttore della fotografia); un cast tra feticci (Elena Radonicich, Tony Laudadio, Antonio Rezza), nuovi incontri (Tommaso Ragno, Michela Cescon, Renato Carpentieri, Vincenzo Nemolato, Chiara Caselli che la interpretava in Lei mi parla ancora) e teatranti (Mimmo Borrelli, Renato De Simone).

Storia sospesa nel tempo e nello spazio, L’isola degli idealisti mutua l’originale ambientazione degli anni Quaranta a un non-luogo nel delta del Po, una sorta di “strada provinciale delle anime” in cui la nebbia dell’inverno desatura i colori fino a trasformare il paesaggio in chiave eterea, alla ricerca di uno spaesamento straniante che si ritrova anche negli interni. Tant’è che, all’inizio, si ha quasi l’impressione di voler lavorare sulle gustose possibilità della scatola teatrale dentro lo schermo cinematografico, sulla messinscena della realtà da consumare all’interno di una villa che sembra un mondo a parte.

È un ragionamento sulle illusioni e i suoi contraccolpi, un’operazione intellettuale per riflettere sul rapporto tra legge e giustizia, tra giudizio morale e fluidità della vita: due ladri fuggono da qualcuno, approdano su un’isola, vengono sorpresi dal guardiano, quindi condotti al cospetto dei proprietari della villa, che sono un vecchio e ironico ex direttore d’orchestra e i suoi due figli, una scrittrice in attesa di risposte e un ex medico che si fa troppe domande, più una governante e un segretario. Un po’ per gioco e un po’ per noia, l’ex medico propone ai ladri un “corso di educazione”: lui offrirà protezione, loro dovranno impegnarsi a cambiare vita.

Lungo (quasi due ore: troppe), più pensato che esperito, quasi compiaciuto del suo ritmo lasco, L’isola degli idealisti conferma l’andamento ostinato del cinema di Sgarbi, che nel suo dichiarare il desiderio di una narrazione meno elusiva e più dritta si conferma invece un teorema algido e distante, che né sa reggere l’ambizione del romanzo (se non è didascalico si rivela illustrativo) né riesce a padroneggiare i contrasti (tutto ciò che accade fuori dalla villa è posticcio). Da segnalare i contributi del grande Manuele Fior (suoi i titoli di testa e la mappa della villa, quasi uno spin-off dei suoi memorabili incanti onirici) e di Giovanni Iudice.