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L'ipnotista
Fa specie associare il nome di Lasse Hallstrom a qualcosa che non faccia pensare immediatamente a uno sciroppo, alla creme caramel, alla carie. Eppure il regista che più di ogni altro ha trasformato Hollywood in un grande romanzo rosa, una specie d'inferno di zucchero a velo (Le regole della casa del sidro, Chocolat), si è andato a ripulire l'immagine nella natìa Svezia, nella neve e nel sangue. L'ipnotista è un tipico thriller scandinavo e un punto di (ri)partenza per Hallstrom, tornato a casa dopo 25 anni "americani".
Quando diciamo tipico pensiamo innanzitutto all'origine lettararia. Come la trilogia tratta dall'opera di Stieg Larsson, Millennium, anche questo film sfrutta un fenomeno editoriale capace di varcare i confini nazionali: L'ipnotista è in effetti il primo degli otto romanzi scritti da una coppia di giallisti, i coniugi Alexander Ahndoril ed Alexandra Coelho, e incentrati sull'ispettore Joona Linna. Ossessionato dal proprio lavoro, vagamente disilluso e sentimentalmente solo, Linna è una sorta di evoluzione archetipica del detective dell'hard-boiled, una maschera sopravvissuta a tutte le sconfessioni del caso, ancora particolarmente amata nell'Europa del Nord (pensiamo all'analogo norvegese Harry Hole, protagonista dei romanzi di Jo Nesbø: a proposito che fine ha fatto l'adattamento dell'Uomo di neve che Scorsese avrebbe dovuto girare?).
Il caso che Linna deve affrontare stavolta riguarda l'efferato massacro di un'intera famiglia, a cui è scampato per miracolo il figlio adolescente. E' il solo che potrebbe far luce sull'accaduto, ma è in coma. Da qui il ricorso all'ipnotista del titolo, l'unico ad avere accesso alla mente del testimone e a rompere il muro di silenzio.
Se Joona Linna ha il volto piuttosto anonimo di Tobias Zilliacus - problema non da poco - il cast di contorno funziona eccome: a incominciare da Mikael Persbrandt (era il medico alla Gino Strada di In un mondo migliore della Bier), la cui presenza scenica e l'intensità di sguardo fanno sembrare vero tutto ciò che fa. Degna spalla di Persbrandt è l'altra veterana del cast, la grande Lena Olin, che interpreta la moglie dell'ipnotista. L'intuizione di Hallstrom - e qui veniamo alla seconda "tipicità" scandinava - è spostare tutto il baricentro narrativo su di loro, preferendo scavare nei problemi di coppia piuttosto che nelle peregrinazioni dell'ispettore. Una scelta che obbedisce in parte alla sensibilità di Hallstrom e in parte dipende dalla tipica attenzione del cinema svedese per le dinamiche psicologiche e affettive del racconto. Bergman insegna.
Il problema è che Hallstrom non è Bergman e il film manca della dovuta forza espressiva.
Più interessato alle rivelazioni interne ai personaggi piuttosto che all'effetto sorpresa della storia, L'ipnotista è un dramma a cote familiare, psicologico, che usa (con parsimonia) il flashback come grimaldello dell'inconscio più che in funzione mnemonica. Raramente la mdp si affranca dai volti dei protagonisti o scavalca l'asse delle loro interazioni. Il che chiarisce anche retoricamente il senso dell'operazione, ma finisce per renderla - complice pure l'ambientazione - congelata, paralizzata in un eterno presente.