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L'Invenzione di noi due
Esiste un cinema romantico in Italia? Un cinema sintonizzato sulle intermittenze del cuore, sui palpiti e i sospiri delle anime infiammabili, fondato sull’attesa di quel rimpianto sempre eluso, sulla nostalgia di cose vissute per un istante e che condizionano un’intera esistenza, consapevole che il discrimine tra innamoramento e amore è l’esercizio del melodramma? C’è stato, sì, estemporaneo più che sistematico nelle sue eruzioni dilanianti (il maestro è Valerio Zurlini), ma, chissà poi perché, si nota sempre una certa diffidenza verso il film d’amore in purezza, quasi avesse bisogno di una nobilitazione che trascende il genere e diventa altro (le eccezioni recenti non mancano: citiamo Dove non ho mai abitato di Paolo Franchi e Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek, che perlomeno si prendono carico del romanticismo ed evitano il sentimentalismo).
In questo senso, L’invenzione di noi due è una sfida. Del film romantico ha tutti i crismi: una storia che attraversa quindici anni (il tempo che se ne va), una coppia che forse non si ama più (il desiderio perduto), lui che ha rinunciato al sogno professionale (da architetto a cuoco) e lei che deve accettare l’idea di non essere ciò che vorrebbe (aspirante scrittrice), una casa che da nido caldo si trasforma in dormitorio respingente, un efficace espediente narrativo (le mail “anonime”: un rapporto spirituale che prova a rinnovarsi attraverso un’ingannevole relazione epistolare), gli oggetti che assumono significati (i plastici dei posti che non esisteranno mai, l’incendio dei libri che non leggeremo mai, i test delle gravidanze che non avremo mai).
All’origine del film c’è il bel romanzo di Matteo Bussola, un veronese nato architetto e reinventatosi fumettista e poi scrittore (Verona è sullo sfondo, solo occasionalmente cartolinesca). Un bestseller apparso in zona Covid (post lockdown: elemento da non sottovalutare per capirne il successo), il che espone ancor di più l’opera seconda di Corrado Ceron (già regista di Acqua e anice, one woman show di, per, con Stefania Sandrelli) alle aspettative dei lettori, al confronto con la pagina scritta, alle mancate corrispondenze tra immaginazione ed esecuzione.
Dalla sua ha i due protagonisti, coinvolti e convinti, ben assortiti perché l’uno, Lino Guanciale (che è un grande attore, soprattutto teatrale, e un volto popolare e qui riprova la consacrazione del grande schermo), sa essere rassicurante e “borghese” quanto disarmato e malmesso, e l’altra, Silvia D’Amico (seconda volta con Ceron), unisce inquietudine ed erotismo come pochissime altre in Italia continuando a ricordarci quanto sia poco valorizzata. Sono due interpreti non conformisti e mai monocordi e che qui coprono bene un arco temporale così lungo che impone sfumature e variazioni, descrivendo l’avventura della crescita di due che partono in un modo e si scoprono diversi.
Al netto di alcune intuizioni non sempre efficaci ma comunque legittime – in primis l’utilizzo della snorricam, una camera attaccata al corpo dell’interprete, trasformando il personaggio nel cardine dell’azione e dunque del mondo – c’è una certa timidezza espressiva che porta al film a ridursi qua e là alla “illustrazione della sceneggiatura”, scritta da Federico Fava e Valentina Zanella con lo stesso Bussola e Paola Barbato (moglie dell’autore oltre che collega: scrive romanzi per ragazzi e Dylan Dog). Ne risente, in particolare nella ricostruzione del passato liceale che nella sua rappresentazione finisce per depotenziare il gioco del destino e della fantasia. L’impressione è che L’invenzione di due quasi desideri far fede più convintamente a un titolo che, se letto con attenzione, è piuttosto dilaniante nel suo stare in bilico tra ambizione e dolore. Quasi anelasse una maggiore libertà, la possibilità di slegarsi dalla pagina per abbracciare un romanticismo meno controllato, più caldo e disperato.