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Antonio Albanese è L'intrepido
Un magazzino pieno di scatole di scarpe. Vuote. Antonio Pane fugge via, lontano da quel lavoro sicuro ma effimero. Una "copertura". No, Antonio Pane preferisce un altro mestiere, quello del "rimpiazzo": un giorno operaio, per qualche ora pupazzo vivente in un centro commerciale, tranviere per una corsa, sguattero in un ristorante, pizza runner e via dicendo. E' senza lavoro Antonio Pane, ma lavora ogni giorno, per rimpiazzare appunto chiunque è costretto ad assentarsi, per un motivo o per l'altro, dalla propria occupazione. Ed è tutto sommato felice, Antonio Pane. Perché si accontenta di poco, perché prima che ai soldi pensa a tenersi "vivo", a non lasciarsi sopraffare da un periodo buio come quello che stiamo vivendo. Un periodo che sta mettendo a dura prova le nuove generazioni, che spaventa anche chi possiede un enorme talento (come Ivo, il figlio ventenne di Antonio, bravo sassofonista) o, più semplicemente, chi tenta ancora di farsi strada nella vita, come Lucia, ragazza che Antonio incontrerà ad un concorso pubblico.
Non è un mistero, non lo è mai stato: Gianni Amelio ha pensato e scritto il suo nuovo film, L'intrepido (oggi in Concorso a Venezia), allo stesso modo in cui un sarto cuce e modella un abito su misura: il "vestito" è stato confezionato per Antonio Albanese, attore con cui il regista di Colpire al cuore e Così ridevano desiderava lavorare da moltissimo tempo. E L'intrepido - titolo che non a caso rimanda al celebre settimanale per ragazzi - non molla mai il suo "eroe", presente in ogni singola scena del film: volutamente surreale e quasi sempre sussurrato, il lavoro di Amelio segue le gesta di un uomo qualunque che, proprio come in un fumetto, è in grado di compiere qualsiasi mestiere, ad affrontare le avversità senza lasciarsi schiacciare.
E' a suo modo una fiaba, L'intrepido, che guarda al Chaplin di Tempi moderni (si pensi alla scena della lavanderia) provando a mescolare commedia, dramma e poesia ma che rimane sospesa - e imbrigliata - proprio nel momento in cui sceglie di mirare al pathos, affidandosi a caratterizzazioni poco riuscite (da rivedere i due esordienti Livia Rossi e Gabriele Rendina) ed esponendo il fianco con dialoghi, spiace dirlo, che rasentano il ridicolo: due su tutti, "Tifo per i tifosi, perché danno un senso alla propria giornata" o "Il tè si beve amaro". D'accordo, il personaggio di Lucia vuole rappresentare la debolezza e al tempo stesso la mera sfacciataggine di una generazione che affida a frasi/slogan le proprie certezze, ma da quel momento la drammaturgia muore. E poco a poco anche il film, inevitabilmente schiavo del suo stesso "eroe". Come ci ricorda quel fermo immagine nel finale.