PHOTO
L'industriale
Torino, oggi. Giorni della crisi. Nicola Ranieri ha ereditato dal padre una fabbrica di panneli fotovoltaici sull'orlo della bancarotta: il business non gira, la produzione dei nuovi modelli non ha ancora un mercato, le banche hanno chiuso i rubinetti, e i debiti minacciano di inghiottire l'attività mandando sul lastrico 70 famiglie. Basterebbe che Nicola chiedesse alla suocera - sprezzante proprietaria di una ricca azienda vinicola - di garantire per lui per respirare un po', ma l'orgoglio glielo impedisce. E giusto per non farsi mancare nulla, l'uomo deve fare i conti nel frattempo con i cedimenti emotivi della moglie, corteggiata da un parcheggiatore rumeno.
E' l'Italia oggi secondo Giuliano Montaldo, che con L'industriale (fuori concorso) inquadra la recessione dal punto di vista del padrone, ridotto a dominus senza dominio nel nuovo regno dell'economia finanziaria e dell'oligarchia degli avvoltoi.
Nel descrivere - con stringente e calcolata progressione - la parabola di un imprenditore all'antica, ostinato e in definitiva impotente - incapace di salvare tanto la bottega quanto la famiglia -, il regista genovese scorge il segno di una cesura epocale e apocalittica, che ha risolto la lotta di classe liquidandone i presupposti: non ci sono appartenenze nella giungla degli affari, ma predatori e predati,e alla logica dei fini è subentrato il gioco degli interessi, al valore il profitto, alla solidarietà d'impresa la strategia delle alleanze. E' depresso più che indignato il paese di Montaldo, chiuso e assediato dentro una città-stato plumbea e anonima (una Torino perennemente sotto le nuvole, fotografata in grigio), popolato da personaggi che anziché agire prendono tempo , muovendosi avanti e indietro nello spazio senza scopo apparente.
L'ora delle scelte è finita, le opzioni si equivalgono e nessuna autorizza a sperare. Ma è proprio questa rigidità progettuale, cromatica ed emotiva a sminuire la portata dell'operazione che, vecchia nell'impostazione, si rivela persino troppo audace quando deve barattare la sceneggiatura con una elencazione dei mali del nostro tempo, zeppa di cliché (dalla casta dei politici al mal trattenuto razzismo italico) e orrori comuni.
L'industriale - che avremmo visto bene in televisione più che sul grande schermo - mostra una realtà ipostatizzata e una sclerosi di sguardo. L'occhio incapace di vedere oltre la cronaca. L'interpretazione di Favino è accorata, convinta, ma non convincente, colpa di una regia e di una scrittura titubante, che non sa offrirgli né una cornice credibile né un indirizzo. Montaldo, se non giudica i suoi personaggi, nemmeno li ama. Resta indeciso. Nel dubbio si preoccupa più di non non scontentare i cattivi pensieri del pubblico, piuttosto che offirgli un secondo sguardo. Di confermarlo più che provocarlo. Quando le immagini non hanno sufficiente forza argomentativa, tocca alle parole il compito di sottolineare, ripetere, mettere a verbale. Fotografare il reale non bastava. Occorrevano pure le didascalie.