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Lincoln
Abramo Lincoln: ovvero un grande presidente può essere Repubblicano. Oggi non ci crede nessuno, il ricordo del governo Bush è fresco, la verità sull'11 settembre un fantasma senza volto, i danni successivi ancora da stimare. Ma l'America, fin dalla sua nascita, ha dovuto fare leva su principi e uomini che sapessero incarnarli per tenere insieme milioni di persone di origini diverse.
Chi avrebbe detto allora che proprio questa terra sarebbe diventata la superpotenza, l'ago della bilancia dell'ordine politico ed economico mondiale? Hanno lavorato alacremente per arrivarci, dando nomi a speranze evanescenti, destinati a rimanere scolpiti nel tempo. Utilizzato simboli: il sogno è (e resta) “americano”; inventato “nuovi corsi”. Abilmente usato l'immaginario collettivo (vedere il doc Valentino's Ghost di Michael Singh per comprendere quanto). Sono diventati i leader del mondo “libero” per autorizzare operazioni (mascherate) di contenimento (“endurance freedom”). Per fortuna il passato è anche glorioso, ma raccontarlo senza manipolarlo è una bella impresa.
Non è certo una novità per Steven Spielberg, appassionato narratore insieme di fiabe e atrocità, che con Lincoln va ben oltre Salvate il soldato Ryan e Schindler's List.
L'America razzista, già evocata nel Colore viola e Amistad, è lo sfondo della vicenda: siamo nel 1865, in piena guerra di Secessione. Lincoln è al secondo mandato, sono i mesi più importanti, quelli in cui avviene il cambiamento: “Dobbiamo fermare questa emorragia – dirà -, che ci è costata 750.000 vite americane”. Come? Convincendo le frange oltranziste conservatrici ad approvare il 13° emendamento alla Costituzione, abolendo quindi la schiavitù. Una rivoluzione epocale per i Repubblicani, che intravedono la minaccia di un'uguaglianza di fatto e lo spettro del suffragio universale. Ci sono voluti dieci anni per trovare la storia giusta (Team of Rivals: the Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin, dal 2005 un bestseller), e il modo di raccontarla. Spielberg si è concentrato sugli ultimi 4 mesi di vita del Presidente, i più emozionanti: “Lincoln ha guidato il nostro paese –racconta –attraverso i momenti più difficili e ha fatto sopravvivere la democrazia americana, ponendo fine allo schiavismo. Ma volevo mostrare qualcosa in più, evitando di incappare nel cinismo e nell'esaltazione eroica: Lincoln era uno statista e un leader militare, e un padre, un marito e un uomo fortemente incline all'introspezione”.
Ci è riuscito in pieno. Aiutato dalla straordinaria performance di Daniel Day Lewis, da Sally Field magnifica moglie e Tommy Lee Jones (con parrucchino) formidabile capo dei radicali, Spielberg fa di Lincoln un gigante tra gli uomini. Capace di volare alto e invitare gli oppositori, dopo aver vinto le elezioni, a far parte del suo Gabinetto. Un politico intelligente e sensibile. Costantemente attento all'equità e ai diritti civili: un uomo con una visione. La stessa, impossibile non cogliere l'analogia, che ha permesso a Obama di diventare presidente degli Stati Uniti.
Per la prima volta Spielberg, con l'aiuto dello sceneggiatore Tony Kushner, tira dritto per oltre due ore, senza nessuna concessione all'enfasi o alla commozione (che alla fine strangola comunque lo spettatore), facendo prevalere il personaggio sulle immagini, svelando l'uomo dietro al mito. Seppure indovinato da Henry Fonda nel bel film di John Ford, Alba di gloria, è qui che Lincoln ritrova il suo posto nella Storia. Dodici nomination all'Oscar ne sono la conferma.