“Per un uomo che vede se stesso come l’eroe di un romanzo, la prigione è un capitolo imprescindibile”. E, par di capire, pure l’adattamento. Gestazione lunga e intorcinata, con Saverio Costanzo prima e poi Pawel Pawlikowski (Cold war) rimasto a co-sceneggiare associati alla regia, produzione Wildside con Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa, Limonov arriva in concorso a Cannes 77, e prossimamente nelle nostre sale con Vision Distribution, con il russo Kirill Serebrennikov (Summer, Petrov's Flu e La moglie di Tchaikovsky) dietro la macchina da presa e davanti il britannico, bah, Ben Whishaw, e più non dimandare.

Sullo schermo, come da sinossi, “un militante rivoluzionario, un delinquente, uno scrittore underground, il maggiordomo di un miliardario a Manhattan. Ma anche un poeta, un amante delle belle donne, un guerrafondaio, un attivista politico e un romanziere che ha scritto della propria grandezza”, la vita come un romanzo russo di Eduard Limonov – il libro di Emmanuel Carrère (Adelphi) che ispira il film è del 2011, il Nostro è morto nel 2020 – annovera patria, America ed Europa durante la seconda metà del XX secolo: diciamolo subito, poco dell’epica, del liberissimo arbitrio, degli sconfinamenti finzionali e fittizi che l’animano, quell’esistenza fatta bestseller, sono ravvisabili nella trasposizione, che salta di palo in frasca senza colpo ferire come in un ipertesto datato e, addirittura, for dummies.

Serebrennikov, che di certo ha fatto di meglio e che genio non è, avrà pure le sue colpe, ma il vizio di forma è già pernicioso nello script, con lo stesso regista e Ben Hopkins ad affiancare Pawlikowski: non è nemmeno bello questo Limonov, e di certo non balla, più che altro asseconda quel che gli accade come se capitasse a un altro, complice il deficit di dimensioni – non solo non ruba, ma nemmeno prende la scena – e l’assenza di gravitas di Whishaw, un ragazzetto imbelle e inerte al cospetto di un uomo e un’impresa manifestamente più grande di lui.

La critica senile o, se preferite, senescente potrà plaudire al giochino metacinematografico, al bricolage sul dispositivo di Serebrennikov e sodali, che ammanniscono fondali storicamente diacronici, dal Muro a Chernobyl, da passare come livelli di videogame, titoli stampigliati in rosso in esergo ai capitoli e altre trovate da (fuori)corso di sceneggiatura, ma sono sforzi palesi e vani di movimentare un racconto permeabile alla noia, che poco rende giustizia alle gesta, e alla mitomania, del Nostro.

La notevole Viktoria Miroshnichenko nei panni, e anche senza, della moglie Elena, Limonov già teppista in Ucraina, icona dell'underground sovietico, barbone e domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore in voga a Parigi e molto di più trova qui pallida eco della convinzione di Carrère che “la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale”.

Non c’è l’oltraggio al pudore, non c’è la temerarietà guascona, la refrattarietà alla banalità e l’assolo accodato eppur contrario allo Zeigeist del Limonov di carta, e carne e ossa, bensì la contemplazione con distacco post-moderno, distanza anodina e maquillage estetizzante di un personaggio, davvero, in cerca di autore, di cui – per dire della levatura – si indugia oltremodo sull’avventura omosessuale, peraltro girata coi piedi.

Chissà che ne avrebbe detto e fatto il buon Eduard di questo timida, anzi, tremebonda copia difforme, ancorata a una persona che non c’è e ai mille simulacri di un originale, appunto, mai esistito: probabilmente, farebbe come nell’intervista parigina, un bicchiere d’acqua in faccia all’uno e la bottiglia spaccata in testa all’altro. Rien ne va plus.

Confuso e monocorde al contempo, un bignamino, ahinoi, senza epica né troppo interesse, che fa rimpiangere il libro e invero il Cinema: ridotto a (anti)eroe borghese, povero Limonov.