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Non è detto che se un'idea funziona per due minuti funzionerà anche per un'ora e mezza. E' l'equivoco in cui cadono i realizzatori di Lights Out, ennesimo horror derivativo che sviluppa il corto omonimo (vincitore di categoria nel 2013 al festival di Bilbao e record di visualizzazioni su YouTube: 12 milioni!) e lo dilata inopinatamente di personaggi, antefatti e spiegazioni che anziché aggiungere tolgono sapore alla storia.
Nell'originale una donna in carne vede apparire un'ombra minacciosa ogni qual volta spegne la luce. Per disinnescare la minaccia la protagonista mette del nastro adesivo sull'interruttore in modo da lasciarlo sempre su "on", poi si mette a letto.
I tentativi si riveleranno inutili e, nell'ultimo fotogramma, l'ombra si rivela una sorta di scimmia dal ghigno mostruoso.
Chi è, chi non è, da dove viene e che cosa vuole, sono tutte domande ovviamente inevase dal corto, che si gioca tutto su paure primordiali ed epidermiche.
Il film invece, sempre scritto e diretto dallo svedese David F. Sandberg, trascura gli effetti (le paure) per concentrarsi sulle cause commettendo un errore quasi sempre esiziale per un film dell'orrore: rispondere a delle domande.
Così, salvo l'incipit iniziale (modellato sul corto, con cameo della stessa attrice, Lotta Losten, che è poi la moglie di Sandberg), Lights Out si attarda in storie familiari di follia, flashback nosocomiali e tipiche manifestazioni da ghost story giapponese che fanno più rumore che spavento. A farne le spese è Maria Bello, come personaggio e come interprete.
La metafora della depressione, vero e proprio demone persecutore, non è nuova e funzionava meglio nel più riuscito The Babadook.