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Liborio © Balsie Guanábana Macuto
Non si finisce mai di scoprirlo, il “terzo cinema”. C’è ancora spazio, in questo mondo globalizzato, per scoprire le proposte di quel movimento transnazionale nato nell’America Latina degli anni Sessanta, contro il neocolonialismo, il capitalismo, l’ideologia hollywoodiana? Eccome, mai come oggi. Specialmente nell’epoca segnata dal “Papa venuto dalla fine del mondo” che con la testimonianza della sua stessa presenza nel mondo porta lontano la voce delle periferie dimenticate.
Liborio (presentato al XXIV Tertio Millennio Film Fest e ora disponibile su MUBI) arriva davvero da un Paese che sfugge alle carte geografiche degli spettatori occidentali, la Repubblica Domenicana. C’è anche una quota di coproduzione garantita dal Qatar, ma l’opera prima di Nino Martínez Sosa apre le porte di una terra a molti ignota e porta alla luce una parte nascosta della cultura, dell’identità, della memoria collettiva di un popolo.
Liborio è un campesino che, dopo essere scomparso durante un uragano, torna misteriosamente nel suo villaggio. E inizia a praticare guarigioni miracolose, mentre attorno a lui aumentano i seguaci che finiscono per formare una vera e propria comunità. Ma il gruppone devoto e l’enorme carisma dell’uomo attirano anche le attenzioni dei militari, decisi a porre fine a questa esperienza e a ristabilire il proprio ordine nella regione.
Liborio si prende i suoi tempi: profezia di un rituale che si esprime nei frammenti di un racconto orale capace di sconfinare nel mito e lavorare poeticamente nelle ellissi, un “film liquido” con l’andamento di una parabola che trascende la contemporaneità per proiettarsi in un altrove dove convivono sprazzi di utopia e tracce di sociologia.
Singolo e comunità, soggettiva e panoramica, luci e tenebre: una storia di rivolta che sorprende quando riesce a mantenersi credibile anche nel narrare l’incredibile e, con i mezzi di un cinema di spirito e guerriglia, sa restituire l’innocenza di un popolo (affamato, nel senso più pieno, perché non di solo pane vive l’uomo), trasmettere il legame simbiotico con un territorio desolato eppure pieno di speranza, il mistero del sovrannaturale come chiave di comprensione di un reale tiranneggiato dal potere castrante, deformante, crudele. Un cinema di lotta, che “dalla fine del mondo” interroga l’Occidente e le sue sicurezze.