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Lettere da Berlino
Guai a chi strappa un figlio dalle braccia della madre; guai a chi lo manda a morire in guerra. La vita non lo accetta e neanche il cinema. Gary Cooper insegue il giovane Giosuè fino al fronte in La legge del Signore, e Tom Hanks si avventura nella Francia occupata dai nazisti per riportare a casa Matt Damon, l’ultimo dei fratelli Ryan (Salvate il soldato Ryan, ndr). Il primo è un padre quacchero durante la Guerra di Secessione, il secondo è un maggiore americano in missione per una madre.
Ma la famiglia Quangel non è stata così fortunata. Nel 1940, in piena campagna di Francia, nessuno ha salvato il loro unico erede, e un giorno giunge la terribile notizia: è morto per il Führer. Si è sacrificato per la patria, per un fine superiore. Otto e Anna non hanno nient’altro, sono persone semplici, abituate al duro lavoro operaio. Il regime ha portato via il loro unico tesoro e in qualche modo si devono ribellare. La Germania, i nazisti, la fedeltà al partito: tutte menzogne, e la gente deve prenderne coscienza. “Stampa libera!” è il nuovo motto del capofficina Quangel, che scrive cartoline sovversive per richiamare l’attenzione degli ariani. Ma alla ribellione, segue la violenza dei padroni. L’ispettore della Gestapo Escherich non ha altra scelta: deve trovare il colpevole, deve scoprire chi è l’autore. La caccia è aperta.
Vincent Pérez è uno dei tanti attori che ha scelto di stare dietro la macchina da presa. Dal 1992, ha girato sei film e con Lettere da Berlino cerca la gloria. Si ispira a Ognuno muore solo di Hans Fallada, un romanzo che Primo Levi ha definito “l’opera più importante che sia mai stata scritta sulla resistenza tedesca e il nazismo”. La storia è potente e affonda le radici in sentieri poco battuti. Non è così scontato trovare film che raccontino le vicende di tedeschi contro Hitler. Ci ha provato Tom Cruise con Operazione Valchiria, ma nei panni di un colonnello della Wehrmacht non era molto credibile.
Peccato che Pérez cada spesso in una drammaturgia un po’ elementare, e non riesca a rendere, in tutta la sua potenza, la tragedia di una famiglia. Per cui il film non riesce a coinvolgere com’era nelle sue intenzioni. Brendan Gleeson, reduce dall’ottimo Calvario, questa volta non trasmette fino in fondo la disperazione di un padre che ha perso il proprio figlio, e la sua voglia di ribellarsi si riduce a una mano che stringe con forza un mancorrente.
Più intenso ci appare Daniel Brühl nei panni di un ispettore in crisi di coscienza. Deve schierarsi con il regime per non rischiare la pelle, e il suo lavoro è schiacciato dalla violenza di un Reich che si crede immortale.
Lettere da Berlino poteva rappresentare uno squarcio importante per raccontare delle realtà dimenticate. Ma la Grande Storia non coincide automaticamente con il grande cinema. La scrittura sapiente di Hans Fallada si scontra con una cinepresa poco incisiva, e il racconto resta in superficie. Ancora una volta l’aquila tedesca non vola alta.