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L'esorcista - Il credente / © Universal Studios. All Rights Reserved
Dopo aver riattualizzato la mitologia di Halloween (con una trilogia partita abbastanza bene nel 2018 e finita abbastanza male nel 2022), David Gordon Green passa ora all’attacco di un altro titolo leggendario, L’esorcista di William Friedkin, vera e propria pietra miliare dell’horror d’autore che, esattamente 50 anni fa (era il dicembre 1973), contribuì a ridefinire non solamente le traiettorie del cinema di genere ma diede nuova linfa alla Warner Bros., che proprio nei giorni scorsi, in occasione della celebrazione del proprio centenario, ha riportato in sala la versione restaurata di quell’indiscutibile capolavoro.
Inutile star qui ad arrovellarci sulla bontà (o meno) teorica di affannarsi a rifare, ad “inventare” reboot, sequel, a dare seguito appunto – anche con così tanti anni di distanza – a titoli capaci di entrare nell’immaginario collettivo già sapendo che i nuovi non potranno mai fare altrettanto: è un’operazione, questa, che continuerà ad esistere per sempre, che di tanto in tanto regala qualche guizzo inaspettato ma che il più delle volte (quasi sempre diciamo) ci costringe a domandarci “perché?”, “che senso aveva ri/fare questa cosa?”.
Forse il modo più corretto per interfacciarsi a film simili è provare a dimenticare il punto di partenza, il prototipo, l’origine, ma capiamo che è una prassi di per sé oggettivamente inverosimile: L’esorcista – Il credente (nelle sale da domani, 5 ottobre, con Universal Pictures) parte con un prologo ambientato ad Haiti.
Un violentissimo terremoto riduce in fin di vita la moglie incinta di Victor Fielding (Leslie Odom Jr.), l’uomo è costretto a scegliere se salvare lei o la figlia che porta in grembo. Tredici anni più tardi, a Perry, in Georgia, Victor si barcamena tra il lavoro (fotografo) e la crescita di sua figlia, Angela (Lidia Jewett), che ha cresciuto da solo.
Quando la ragazzina e la sua amica Katherine (Olivia O’Neill, qui accreditata come Olivia Marcum) spariscono nel bosco, per poi tornare tre giorni dopo senza ricordare nulla di quanto successo, diventa sempre più evidente che qualcosa di oscuro stia compromettendo la loro esistenza: la scienza non sa trovare risposte e Victor, nel terrore e nella disperazione, è costretto a cercare l’unica persona in vita che abbia mai assistito a qualcosa di simile, ovvero Chris MacNeil (Ellen Burstyn), madre di Regan, ragazzina che 50 anni prima era stata posseduta dal demonio.
Targato ovviamente Blumhouse, il film di David Gordon Green è sicuramente più dignitoso – non che ci volesse molto – dei due sequel (L’esorcista - L’eretico di Boorman, 1977, e L’esorcista III di William Peter Blatty, 1990) che avevano tentato di proseguire sul sentiero tracciato da Friedkin. Sin da subito inizia a “giocare” con dei rimandi (i cani che “lottano” in spiaggia ad Haiti, proprio come quelli che nel sito archeologico iracheno catturavano l’attenzione di Max von Sydow…) e attraverso un ottimo montaggio incomincia a disseminare turbamenti capaci di insinuare quello che avverrà dopo: la prima parte di questo L’esorcista – Il credente, insomma, sembra volersi smarcare dalla pacchianeria di un horror sensazionalistico qualsiasi. Nessuna musica invasiva ad appesantire il lento procedere delle cose, nessun effettaccio o jumpscare gratuito ad alimentare spaventi a buon mercato, piuttosto la volontà di costruire un ambiente anche grazie ad un intelligente ragionamento sulle immagini catturate da Victor, dapprima ad Haiti, poi nel suo lavoro allo studio con una famiglia che sembra impossibile inquadrare in maniera nitida.
Dalla scomparsa delle ragazze in poi, invece, il film sembra imboccare una nuova strada, che condurrà sì alla fine di questo capitolo ma che – inevitabilmente – apre ulteriori scenari per il già annunciato prosieguo della già annunciata trilogia: ritrovate dopo 3 giorni (già, proprio lo stesso lasso di tempo che separa Gesù Cristo dalla morte alla Resurrezione…) a circa 50 km dal luogo della sparizione, le due amiche non presentano segni di abusi subiti o altro che faccia pensare “al peggio”. Per i dottori, dunque, possono tornare a casa.
Il corpo e il sangue, il corpo e il sangue, il corpo e il sangue...
Inizia da qui, dunque, il discorso sulla (doppia) possessione: che cosa hanno fatto le due ragazze nel bosco? Che cosa si è impossessato di loro? Ma, soprattutto, come fare per liberarle?
Il gancio più ovvio con il film di Friedkin è quello di riportare in scena Ellen Burstyn, donna che a suo tempo aveva vissuto qualcosa di analogo con la figlia ma che non aveva potuto assistere all’esorcismo a causa del retaggio “patriarcale” che muoveva certe pratiche…
David Gordon Green abbandona per strada il fascino di un mistero che di fronte all’insondabile finisce per lasciare spazio alle parole, troppe, contrappuntate dal crescendo del main theme celeberrimo di Mike Oldfield (Tubular bells), cerca la contrapposizione feroce tra la famiglia di Katherine (cattolici devoti e bigotti) e il papà di Angela (“Lei non crede in Dio?” – “Non credo nella domanda”), porta a galla l’insperata coincidenza di un’anziana, scorbutica vicina di casa (Ann Dowd) che guarda caso è infermiera nell’ospedale dove le due amiche vengono ricoverate e nasconde un passato che nessuno conosce (ma ovviamente il demonio sì…) e procede spedito verso l’atteso “rituale” che dà il titolo ad ogni cosa. Rituale che – non avevamo dubbi – sarà rivisto secondo dettami più in linea con “lo spirito dei tempi”, l’ottica sulla centralità della Chiesa viene ricalibrata (l’istituzione se ne lava le mani, sostanzialmente), ci si apre verso altre pratiche (i rootworkers dell’hoodoo afroamericano), di fondo – e in qualche modo capiamo così perché stavolta il male si sia impossessato di entrambe… – si ritorna circolarmente (vedi Haiti…) all’obbligo di compiere una “scelta” impossibile. E ad interrogarsi sul vero senso del bene, al modo in cui tramandarlo.
Architettura, questa che si decide di portare avanti, francamente abbastanza dozzinale, tutto sommato in linea con la parabola discendente che il film compie nella sua seconda metà.