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William Friedkin e Linda Blair sul set de L'esorcista @Warner Bros.
Quando L’esorcista fece la sua comparsa nei cinema americani il giorno di Santo Stefano del 1973, in pochi avrebbero immaginato che quell’horror costato poco più di dieci milioni di dollari avrebbe salvato se non l’anima della Warner Bros., almeno le casse: quasi mezzo miliardo al botteghino globale, metà del quale racimolato negli Stati Uniti, L’esorcista sarebbe diventato il film horror con censura ad aver incassato di più in America. I leggendari studios hollywoodiani venivano da una crisi economica e produttiva decennale, provocata dall’avvento dei broadcaster televisivi e dalla mutazione genetica del pubblico. Allora fu la New Hollywood a rilanciare il grande schermo e il sistema produttivo che ne dipendeva. Oggi che l’avvento delle piattaforme di streaming ha provocato un terremoto tra le major persino peggiore, servirebbero strategie altrettanto efficaci e non deliranti ipotesi di trasformazione delle sale in sale da pranzo allargate.
Aspettando Godot, accontentiamoci della politica dei revival delle ultime settimane – grandi classici del cinema riproposti a un pubblico di nostalgici e di aspiranti tali, una sorta di ferializzazione delle arene – a cui risponde anche L’esorcista – cinquant’anni dopo che, oltre a brillare tra i restauri più attesi alla Mostra (Venezia Classici), è anche uno dei titoli riproposti da Warner per il suo centenario (dal 18 al 20 settembre sarà nelle nostre sale).
La domanda è: ha ancora qualcosa da dirci il film del compianto William Friedkin? Il fatto che la Blumhouse - con L’esorcista – Il credente di David Gordon Green (nei nostri cinema dal 13 ottobre con Universal) - abbia scommesso sul reboot di una saga che vantava già tre film, un prequel (Dominion, diretto da Paul Schrader), due versioni demenziali (una con Leslie Nielsen, l’altra con Franco e Ciccio), una serie tv e una caterva di imitatori non sempre memorabili, porterebbe a dire di sì, e il fatto che nel progetto sia stato coinvolto David Gordon Green, già autore di un dignitoso remake di Halloween, lascia ben sperare (potrà mai essere peggiore del resto de L’esorcista del Papa, con Russell Crowe improvvido Padre Amorth?).
Ci sono poi diversi motivi per rivivere l’esperienza de L’esorcista in sala. Anzitutto la sfida alle convenzioni di genere, che vale ancora oggi: il film di Friedkin non concepiva il soprannaturale come rovescio multiverso del reale (come accade in gran parte degli horror e delle serie contemporanee – il Sottosopra di Stranger Things dice qualcosa?), ma intercettava nel corpo della realtà un disturbo, una distonia.
Utilizzando un approccio del tutto inusuale per il genere, tradizionalmente apparentato con i codici del fantastico, Friedkin circonfondeva la storia con un’impalcatura semi-documentaria, a partire già dal prologo in Iraq, quando da scavi archeologici viene dissotterrato l’oggetto malefico, l’amuleto demoniaco. Come dire: il Male non viene da fuori, ma è da sempre dentro di noi, acquattato nelle viscere del mondo.
È il 1973, siamo ai rantoli della guerra del Vietnam. Ma potremmo essere nel 2023. Con le radici marcite di una terra che vomita dappertutto le fiamme di un’apocalisse poliforme: virologica, climatica, bellica, tecnologica.
Apocalisse è rivelazione. II cinema dell’orrore non è però epifania del maligno, ma dello stato sempre transitorio dell’anima, esito incerto della contesa tra Male e Bene.
È dunque la mutazione la chiave (psicosomatica e allegorica) utilizzata dal film. Uno spettacolo allestito sul corpo di un’adolescente, Regan, che Friedkin sottopone all’analisi della scienza (la descrizione minuziosa delle tante visite mediche che la giovane paziente deve affrontare) e della metascienza (l’esorcismo). Regan che parla una lingua incomprensibile, che ha il viso deturpato da segni che sembrano brufoli, che è in preda a contorsioni animalesche, pulsioni sessuali, che perde liquidi, è anche un’allegoria, mostruosa, del passaggio dalla pubertà all’età adulta. Un passaggio che comprende la ribellione all’autorità: la madre e la religione.
L’esorcista somiglia così a un coming of age orrorifico, ante litteram rispetto a quello che Brian De Palma, tre anni dopo, avrebbe realizzato con Carrie. Questa chiave metaforica è solo una delle tante possibili. Se L’esorcista resta ancora oggi uno dei film più spaventosi del genere è perché flirta con la teodicea, non barattando mai una paura profonda con brividi a buon mercato. Offre cioè orrore metafisico, l’angoscia di fronte alla morte definitiva: quella spirituale. Del resto, l’esegesi cattolica del cinema delle origini ha affermato la natura diabolica della macchina, un dispositivo tecnico-spirituale che divide (diabolico da dia-bàllein: separare), contrapponendo all’originale il suo simulacro.
Al contempo, nello scuotere una società secolarizzata con l’irruzione di forze primitive, irrazionali, L’esorcista interroga l’antropologia delle domande ultime: cos’è l’uomo, in definitiva? Domanda che risuona fortissima oggi, quando il dramma delle possessione riecheggia sinistro in quello della spossessione: della perdita dell’umano a favore delle macchine.
In fondo, sempre di passaggio d’anima si tratta.