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L'erede
È il titolo a dirci su cosa lavora il film di Xavier Legrand: il concetto di eredità, di ciò che ci viene lasciato da chi se ne va, di quel che resta malgrado noi. Facile pensare che l’erede sia anzitutto lui, Legrand, prima attore e poi regista subito candidato all’Oscar per il cortometraggio Avant que de tout perdre, quindi consacrato con L’affido, primo lungo che fece doppietta a Venezia (Leone d’Argento per la regia e Leone del futuro).
Sette anni dopo, la sua opera seconda sembra riflettere anche su quanto possa essere pesante non disattendere le aspettative altrui: lo esplicita in quell’incipit in apparenza patinato, un defilé in cui le modelle incedono in un percorso simbolicamente a spirale, mentre il giovane Ellias Barnès, lo stilista che ha creato quegli abiti, accusa un dolore forse cardiaco. Si tratta, più plausibilmente, di un attacco di panico e il cuore c’entra di rimbalzo (è la mente a decidere, gli ricorda la sua dottoressa).
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L'erede
È un incipit piuttosto trasparente: Ellias sta prendendo il posto del suo mentore, il direttore di una nota maison appena scomparso, e inoltre deve capire se i suoi problemi di salute sono legati all’ictus capitato al padre qualche tempo prima. Solo che i rapporti con il genitore sono nulli, il tentativo di rispondere a una vecchia mail viene subito abortito e il destino fa il resto quando la polizia gli comunica che il padre è morto dopo un infarto. È tutto apparecchiato con precisione: in un momento decisivo per il suo avvenire, il protagonista è costretto a fare i conti con il passato (da sottolineare, peraltro, che usa un nome d’arte, quasi a voler recidere anche nominalmente il legame con quel padre). E tornare, così, vola in Québec per organizzare il servizio funebre di un uomo con cui non voleva avere niente a che fare.
Da qui Legrand – che ha scritto la sceneggiatura in collaborazione con Dominick Parenteau-Lebeuf, a partire dal romanzo L’Ascendant di Alexandre Postel – inizia a montare la tensione ricorrendo alle marche tipiche del genere: una casa piena di segreti, le porte che si aprono sull’orrore, la paranoia verso chi sembra nascondere qualcosa, una svolta che non lascia scampo.
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L'erede
Se la misura è la tragedia che dalla classicità si riverbera nella contemporaneità, il protagonista si lancia su un asse che da Edipo ed Oreste arriva ad Amleto. E la tassa di successione dell’erede non può che essere la violenza, a partire dalle conseguenze del patriarcato che investono anche coloro che se ne sentono esclusi (e chi non può immaginare cosa alberghi oltre la maschera della quotidianità).
Meno stremante e implacabile de L’affido, sostenuto dalle musiche di SebastiAn, L’erede è più ragionato e dritto nel rivelare l’inquietudine di un protagonista via via sempre più rannicchiato e offeso del protagonista (bel tour de force per Marc-André Grondin). Ma questo mettersi addosso al corpo spaesato del suo eroe tragico non sempre basta a garantire la credibilità nelle scelte adottate da un certo momento in poi, come se il personaggio fosse vittima tanto dei contraccolpi di una salute precaria (la paura che mangia l’anima) quanto dell’ereditarietà (il male può essere trasmesso con una proprietà?). È un passaggio narrativo piuttosto meccanico e che accompagna il film nella tesi imposta dal suo autore. Ma i dieci minuti finali, sconcertanti se non proprio devastanti, riscattano tutto e danno ragione alla visione di Legrand.