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Leonardo Maltese in Leopardi - Il poeta dell'infinito
Prima dei titoli di coda di Leopardi – Il poeta dell’infinito (proiezione speciale Fuori Concorso a Venezia 81, a dicembre su Rai Uno in due puntate), Sergio Rubini esprime vari ringraziamenti. Il primo è a Domenico Starnone, che non è solo uno dei più grandi scrittori contemporanei ma anche un collaboratore di Rubini, a cui si deve la “scintilla originaria” del progetto. Quale sia non ce lo dice, ma ci viene da pensare che sia in quella bara che vediamo all’inizio della miniserie.
La questione della sepoltura di Leopardi è controversa: morto in una Napoli devastata dal colera, fu probabilmente “salvato” dalla fossa comune imposta dall’epidemia e inumato in una cripta, ma qualcuno sospetta che l’amico Antonio Ranieri abbia mentito, tant’è che la posizione ufficiale della famiglia Leopardi e della Fondazione Casa Leopardi è che i resti non appartengono al poeta. La faccenda, comunque, è interessante, e Rubini (che ha scritto la sceneggiatura con Angelo Pasquini e Carla Cavalluzzi) parte proprio da quella bara (che, in un momento critico, viene descritta come quella di una bambina date le misure ridotte) per entrare nel mistero di Leopardi (Leonardo Maltese offre anima e corpo), ricostruendone la vita attraverso la voce di Ranieri (Cristiano Caccamo), prima con il prete (Alessandro Preziosi) contattato per dare degna sepoltura al cadavere e poi insieme a Fanny Targioni Tozzetti (Giusy Buscemi), grande amore mancato del poeta e amante di Ranieri.
Peccato che il dialogo tra l’amico e il prete in assenza del soggetto (o perlomeno post mortem) è l’unica scintilla – anche visiva: suggestivo che accada in un luogo religioso con tutto ciò che comporta alla luce dello sguardo leopardiano – di questo biopic un po’ troppo istituzionale nonostante le intenzioni. Andamento tradizionale: il rapporto con il severo e opprimente padre (Alessio Boni), la scoperta dei libri, l’abbandono della paventata carriera ecclesiale, l’amicizia con Pietro Giordani (Fausto Russo Alesi), i primi passi nella letteratura, l’accesso ai circoli liberali, i guai con la censura, la salute cagionevole e così via fino all’epilogo napoletano.
Siamo lontani dal ripensamento critico e dall’esplorazione interiore del Giovane favoloso (curiosità: Rubini segue ancora una volta Mario Martone dopo I fratelli De Filippo quasi sequel di Qui rido io) e più vicini alla restituzione didattica ancorché appassionata di una figura capitale della nostra cultura. Ciò che sembra mancare al Poeta dell’infinito è, parte per il tutto, quel mondo evocato dal titolo, il processo generativo del discorso poetico e della riflessione politica che resta sulla superficie sia sul piano dell’enunciazione che su quello dell’interpretazione e lascia perplessi anche la ricorrente profezia ribadita soprattutto da Ranieri in merito alla fortuna postuma di Leopardi rispetto a, per esempio, un Niccolò Tommaseo (qui villain da operetta).
Il focus è soprattutto sulla vita, sugli atti mancati e sui non-detti (Ranieri accreditato da Fanny quale “legittimo compagno” è un appunto che giustamente non viene approfondito: che il pubblico si faccia un’idea), sulla dimensione sentimentale di un uomo evidentemente sfortunato e vocato alla disperazione, il cui articolato e complesso pensiero appare qua e là ridotto a materiale da antologia scolastica.