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Robert Redford sul set di
Lions for Lambs
Leoni per agnelli, triste traduzione letterale di Lions for Lambs, è il nuovo film diretto da Robert Redford, fuori concorso alla Festa di Roma. A Redford vorremmo subito chiedere se l'avrebbe selezionato per il suo Sundance: noi crediamo di no... Tre i fronti della storia ("s" minuscola, per carità): ufficio del Congresso, l'ambizioso senatore Tom Cruise si fa intervistare dalla giornalista televisiva Meryl Streep, oggetto il cambiamento di strategia dellle forze Usa in Afghanistan; West Coast University, incontro-scontro tra il professor Robert Redford e l'allievo prodigio, ma stronzetto Andrew Garfield; Afghanistan, due ex-studenti di Redford, il nero Derek Luke e l'ispanico Michael Pena, ora forze speciali Usa, dimostrano sul campo di battaglia l'eufemistica perfettibilità del piano elaborato dal senatore Cruise.
Girato per due terzi in interni, e per un terzo nella Simi Valley californiana, realisticamente costato due lire (valuta hollywoodiana), Leoni per agnelli rappresenta l'ultimo approdo del liberalismo statunitense su grande schermo. Traghettatore d'eccezione è Robert Redford, curriculum di stretta osservanza liberal, che si piglia la responsabilità di indicare al suo Paese quale rotta geopolitica debba, ovvero non debba, seguire, con un occhio di riguardo a Iraq e Afghanistan. Pregevole sforzo, ma - diceva qualcuno - se vuoi mandare un messaggio invia un telegramma, non usare il cinema.
Che fa Redford? Prende attori simili, molto, ai propri personaggi: l'ex-Top Gun Cruise - alla sua prova migliore degli ultimi anni - a fare il gallo del pollaio Repubblicano, sorriso di ceramica e mood da fascinoso (sic!) imbonitore; la pasionaria Streep - brava senza sforzo - a stanare la vera notizia, con i prevedibili risvolti etici e deontologici del caso; i non wasp Luke e Pena (Mr. 9/11 del grande schermo) Oltreoceano a far da carne scelta da macello; e poi se stesso, professore liberal disilluso, impegnato a discettare di tutto e di più con il simulacro odierno del combattente (e cazzaro...) che fu.
Nonostante la regia da film-tv, il primo duetto funziona, complici gli attori, e la parziale conguenza di situazione e dialoghi; il secondo, en plein air, sconta drasticamente la funzione didascalica e l'esibita povertà; il terzo fa precipitare leoni e agnelli nel baratro dell'inconcludenza. Innanzitutto, inverosimili sono tempi, modi e durata dell'incontro tra professore e studente: va bene, che l'università italiana fa schifo, e che a Berkeley si pagano 30mila euro di retta, ma qual è il professore che ricorda per filo e per segno - letteralmente - un allievo e lo riceve alle 7 del mattino come se fosse il rettore dell'ateneo? Secondo, il dialogo tra i due raggiunge vertici deliranti, mettendo nel calderone il melting pot stelle & strisce, portandolo a ebollizione e sublimando per lo spettatore pillole di saggezza socio-politico-ideologico-filosofica del genere: l'esercito è l'unica forma di eguaglianza possibile, indi neri e ispanici si arruolano; il nero e l'ispanico erano bravi, ma con sforzo, viceversa lo studentello bianco è potenzialità assoluta; non rimandare a domani, quello che puoi fare oggi...
Ci fermiamo qui, in ossequio al Redford che fu. Noi ce lo ricordiamo bene, lui un po' meno, e nel finale induce Luke e Pena a scimmiottare Butch Cassidy. Tanto fervore (liberal) per nulla.