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Il protagonista
Ulrich Muhe
"Ostalgie" canaglia. Da Good bye, Lenin! a Benvenuto Stalin. Dopo una scorpacciata di film in cui avevamo assaggiato la mitologia dell'ex Germania Est fra Trabant e Wartburg arriva Le vite degli altri, storia d'amore ai tempi della Stasi scritta e diretta dal sorprendente esordiente Florian Henckel Von Donnersmarck. Giovane affamato di letteratura, coltissimo, non aveva alcuna esperienza con la macchina da presa. In 7 mesi, da Locarno a Los Angeles, consensi plebiscitari di pubblico e critica e il trionfo agli European Film Awards e all'Oscar come miglior film straniero. Inaspettato ma meritato. Sceneggiatura tonda e definita, senza sorprese. Più della storia è la narrazione, nazional popolare nel senso più alto del termine, a colpire. Le emozioni e i sentimenti sfiorano il didascalismo, ma con lo stile e l'intensità di un Pasternak. Influssi più letterari che cinematografici, regia pulita, mai presuntuosa né pretenziosa. Protagonista è uno scrittore, Georg Dreyman (Sebastian Koch, nazista "buono" in Black Book), punta di diamante della cultura DDR. Ha tutto: successo, amore, amici. O almeno così sembra. Il suo più caro amico e maestro, Jerska (Volkmart Keinert), è sulla lista nera del governo. La stupenda compagna, l'attrice Christa-Marie Sieland (una sempre più interessante Martina Gedeck, ormai diva non solo tedesca) è depressa. Lui è sotto sorveglianza, nonostante l'amicizia con la first lady Margot Hoenecker, "Miss Comitato Centrale", moglie e sodale del dittatore del proletariato Erich. Sulle tracce dell'artista c'è Gerd Wiesler (Ulrich Muhe, straordinario), mastino esperto delle vite degli altri. L'oscuro spione e l'eroe buono: storie parallele e speculari. Insieme prenderanno consapevolezza di sé: il primo a livello umano, il secondo politico. Su di loro l'ombra di quella polizia segreta, la Stasi, il più efficiente sistema di controllo sociale della storia. Centomila effettivi, duecentomila informatori, una persona ogni sei abitanti dedito alla delazione occasionale (leggete "C'era una volta la Ddr" di Anne Funder): la quotidianità del male. Amore, morte, ingiustizia, dolore: ingredienti eterni. Ben mescolati dal giovane cineasta tedesco che cade solo in un finale adorabilmente retorico. Rimane dentro una frase rivolta a Dreyman, la cui arte è sterile dalla caduta del muro. "Dura vivere in questo presente, vero? Nulla in cui credere, nulla a cui ribellarsi". Ostalgie canaglia. Appunto.