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Juliette Jouan in Le vele scarlatte
Dopo Jack London, Aleksandr Grin. Dopo Martin Eden, L’envol, ovvero Le vele scarlatte. Pietro Marcello apre la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2022 rinnovando la matrice letteraria e l’istanza trasfiguratrice del suo cinema ultimo scorso: “racconto popolare, musicale e storico, al confine con il realismo magico”, ha un incantamento femminile, un’attitudine leggera, un destino assertivo.
Ottime le musiche di Gabriel Yared, ispirata la fotografia di Marco Graziaplena, limitato, almeno per gli standard del regista casertano, il ricorso all’archivio, Le vele scarlatte ha un grande, giusto cast: Juliette Jouan, Raphaël Thiéry, Noémie Lvovsky, Louis Garrel e Yolande Moreau.
Sceneggiatura di Marcello con l’abituale Maurizio Braucci e Maud Ameline, si adatta il libro di Grin, scrittore russo del XX secolo, socialista rivoluzionario e dissidente, prendendosi ampie libertà: la Francia, Piccardia, al posto della Russia, uno stupro in guisa della polmonite, un aviatore impenitente e amante del gioco d’azzardo anziché un più canonico principe azzurro.
Perché dal femminicidio all’identità dell’uomo contemporaneo, passando per il matriarcato, il regista aggiorna la lezione, adatta al qui e ora, allo Zeitgeist, e la fa per partito preso, ma non a tesi: perché la magia, l’incanto non sono corollari, ma attributo storico, anziché materialismo materia storica.
Tali sono le creazioni dell’artigiano Raphaël (Raphaël Thiéry, perfetto per immagine e empatia), le cui mani tozze e grandi danno possibilità ludiche, utensili, artistiche e sempre inedite al legno, dai giochi per bambini alla polena con il volto della sua perduta Marie. È tornato dalla guerra, la Prima Mondiale, ha trovato Juliette, che Marie gli ha lasciato: la cresce lui, insieme ad Adeline (Lvovsky) e la sua corte dei miracoli, e Juliette impara, musica. Canto e a fare di testa e cuore suo, senza alterigia, con generosità e servizio. Un giorno, lungo la riva di un fiume, una maga le predice che delle vele scarlatte arriveranno per portarla via dal villaggio, e lei ci crede, e ci crederà. Arriva un aviatore (Garrel), è lui il latore delle vele? Chissà, ma non il principe azzurro: sceglie lei, come con il padre, anche con lui, è volitiva con garbo, Juliette, è splendida di possibilità.
Ed è davvero l’anima del film, femminile più che femminista, riconciliante ma non riconciliato, lontano dal clangore maschile, e marziale, di Martin Eden, meno ardito di quello, anche nella trasfigurazione temporale e nell’intreccio dell’archivio, però è un segno di maturità anziché di arrendevolezza ideologica o regressione poetica: L’envol sa il fatto suo, ma non ha bisogno di provarlo a ogni inquadratura, a ogni montaggio.
Più che realismo magico, è magia realistica, un piccolo mondo antico che il male, eccome, lo conosce, sul piano pubblico che privato, guerra e stupro, ma non dimentica di fare del buono, i rapporti, e del bello, i lavori di Raphaël, il canto di Juliette.
E, sopra tutto, di rendersi disponibile all’altro, l’imprevisto, il desiderato e l’insperato.
C’è Jacques Demy, c’è – e proprio con degli estratti – il Julien Duvivier di Au Bonheur des dames (1930), c’è L’Hirondelle di Louise Michel, c’è Corot che incontra Courbet, ché poi quella è l’origine del mondo, e c’è Pietro Marcello, che è più posato, ma non meno sensibile.