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Mario Monicelli sul set
delle Rose del deserto
La zampata è quella di sempre, come il suo marchio da maestro: ironia, cinismo, una spruzzata di indulgenza al sentimentalismo, rabbia e rimandi neanche troppo velati all'attualità; dall'incontro-scontro con il molosso arabo alla stupidità del potere messo alla berlina, dalla confusione mistica tra cristianesimo e culto di Allah alla condizione femminile degradata e, infine, l'interrogativo irrisolto sulla esistenza di Dio. Monicelli ne Le rose del deserto, suo sessantacinquesimo film liberamente ispirato al romanzo di Tobino Il deserto della Libia, frulla un po' tutto l'archivio storico della sua commedia all'italiana restituendo parte della sua genialità in una pellicola che, forse volutamente, ha il sapore di un piccolo mondo antico. A cominciare dalla filigrana della pellicola, da quell'asincronismo soprattutto iniziale del doppiaggio che ne fa un racconto per immagini d'altri tempi, per finire con un'effettistica rudimentale che non rende giustizia al lavoro in digitale in fase di postproduzione. Il Monicelli vero, palpitante, la nervatura gagliarda della sua arte sta tutta nei personaggi, nell'interpretazione altissima di Michele Placido, un frate Simeone poco attento alla dottrina ma concreto nel suo aiuto umanitario; in quella garbata, intensa del Maggiore Alessandro Haber, poeta irreale in mezzo alla barbarie della guerra; nella levità del tenentino Giorgio Pasotti con le sue pulsioni carnali sempre mitigate dal zelante lavoro sul fronte. E' così che quel punto infinitesimale nel deserto libico durante la seconda guerra mondiale, quell'oasi arida di palme rinsecchite dove la Trentunesima Sezione Sanità ha dislocato il suo campo, diventa territorio fertile, vivo per la commedia umana di Monicelli che raggiunge picchi di intensa poesia in alcune sequenze. Su tutte quella del matrimonio per procura officiato in mezzo al deserto davanti alla sepoltura in pietra del neosposo che è già diventato un caduto per la patria.