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Le quattro volte
Non assomiglia a nessun altro film italiano Le quattro volte, il nuovo lavoro di Michelangelo Frammartino in rassegna alla Quinzaine. Volendo trovare degli equivalenti a un approccio assolutamente originale - al progetto cioè di un cinema che prescinde dai condizionamenti di genere e dai retaggi ai quali la maggior parte dei suoi colleghi sembra assoggettata (con l'eccezione, va detto, del Pietro Marcello di La bocca del lupo) – è aldilà delle frontiere che bisogna allungare lo sguardo. Dalle parti di quei cineasti fuori dal coro, dediti alla ricerca e alla sperimentazione, incuranti delle convenzioni che separano il documentario dalla finzione, l'approccio realistico da quello concettuale, l'osservazione dall'interpretazione.
Lo stesso Frammartino suggerisce la possibilità che il suo lavoro si presti a letture diverse, offrendosi simultaneamente allo sguardo come un imprevisto film di fantascienza (ancorché privo di effetti speciali), un documentario etnografico sulle tradizioni dimenticate dell'Appennino calabrese o, ancora, un conte philosophique sul persistere delle credenze animistiche nelle civiltà rurali non ancora travolte e cancellate dalla modernizzazione galoppante.
In verità, non si tratta di scegliere tra una lettura e l'altra, perché il film è tutte tre le cose insieme. Alla maniera di un Robert Flaherty o di un Jean Rouch contemporanei, Frammartino ha percorso in lungo e in largo le plaghe più remote della regione dove aveva già ambientato il suo primo film (Il dono), filmando per tre anni cerimonie di cui si è perso il ricordo e rituali dal fascino ancestrale. Come in un film di Herzog, ha adottato il punto di vista di un alieno per poterne esplorare sino in fondo, con rispetto e ammirazione privi di pregiudizi, la misteriosa e affascinante bellezza. Infine, alla stregua di un Godard filosofo e antropologo, ha manipolato il materiale così faticosamente raccolto per trarne una riflessione di straordinaria intensità e rigore sull'enigma dell'esistenza e sul tema della reincarnazione, un poema visivo - privo di dialoghi ma ricchissimo di suoni e rumori - ispirato a una concezione animista dell'universo.
Scandito in quattro capitoli ispirati a una frase attribuita a Pitagora – secondo la quale in ciascun essere ci sarebbero quattro vite distinte, incastrate l'una dentro l'altra: minerale, vegetale, animale e razionale – il film si lascia definire come il viaggio di un'anima attraverso i suddetti stati. Un vecchio pastore malato, che crede nel potere taumaturgico della polvere raccolta in chiesa, muore mentre una delle sue bestie sta per partorire; il capretto si perde il giorno della sua prima uscita al seguito di un gregge al pascolo e trova rifugio sotto un abete bianco, che sarà poi abbattuto per celebrare un rito di origine pagana. Lo stesso albero viene infine trasformato in carbone, con un procedimento tanto antico da far dubitare che possa essere davvero sopravvissuto sino ai giorni nostri.
Raramente si è visto al cinema qualcosa di altrettanto audace e appassionante. Il film di Frammartino è un invito al viaggio alla riscoperta di un mondo scomparso, uno scandaglio lanciato nelle profondità della memoria di ciò che ci ha preceduto, il riaffiorare inatteso di una condizione primitiva della quale credevamo di aver perso ogni cognizione. La nostalgia forse di un'identità primordiale cancellata dal peccato originale, ma anche l'invito implicito alla ricerca di un nuovo equilibrio, semmai capace di ricomporre la frattura (ontologica?) fra il genere umano e gli altri esseri viventi: piante, animali, rocce, polvere, acqua, vento.
E' doveroso, a questo punto, ricordare chi ha consentito a Frammartino di lavorare in assoluta libertà creativa: la Vivo Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli, con la partecipazione di Invisibile Film (Italia), Essential Filmproduktion (Germania), Ventura Film (Svizzera) e il sostegno del TorinoFilmLab (anche finanziario) e dell'Istituto Luce.