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La proprietà dei metalli
Antonio Bigini, sceneggiatore, curatore e regista classe 1980, esordisce al lungometraggio con Le proprietà dei metalli, in cartellone al festival tedesco nella sezione Berlinale Generation – K Plus.
Il film ha due problemi: il primo intrinseco, non è riuscito, almeno non del tutto, ché troppo menar il bambin prodigio per l’aia, troppo iterare, cincischiare, insomma, è irresoluto; il secondo estrinseco, abbiamo da poco visto un film assimilabile, meglio, accostabile per tema, bambini con superpoteri, che è un quasi capolavoro, The Innocents di Eskil Vogt, sicché il paragone tutto a sfavore rincara l’insoddisfazione.
Peccato o, se preferite, buona la seconda. Intesa ovviamente quale opera, speriamo Biagini la faccia, magari affinando nel mentre il coté visivo e visuale: qui si ha la sensazione di un film letterario e letterato, polveroso al netto della datazione storica, di parola al di là della necessità poetica, stilisticamente un po’ cheto.
Comunque, lo sceneggiatore e regista Biagini, che deve essere ragazzo giudizioso e studioso, prende da una vicenda poco nota, quella dei cosiddetti minigeller, che alla fine degli anni Settanta presero a emulare l’illusionista catodico Uri Geller e provarono, in qualche caso riuscendoci, a piegare chiavi e cucchiai con un tocco, suscitando l’interesse di due professori universitari.
Di qui, il piccolo Pietro (Martino Zaccara) che in un paesino montuoso dell’Italia centrale in quell’epoca inizia a manifestare siffatte sorprendenti e misteriose doti: miscela di leggi fisiche e desideri profondi, premonizione e performance, le sue imprese vengono monitorate da un professore americano (David Pasquesi) e squassano, almeno un poco, la vita familiare, divisa con padre padrone (Antonio Bull Pueyo), nonna a mezzo servizio e fratellino complice.
È tutto qui, con molte ripetizioni e qualche – non sveliamo – colpetto di scena, ma tocca capirsi: sospensione non è stasi, ambiguità non è indecisione, sottrazione non è grado zero.