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Le Otto Montagne
Due di due. Potremmo tirare in ballo il titolo di un altro romanzo, di Andrea De Carlo, per dire de Le otto montagne, il libro di Paolo Cognetti (Giulio Einaudi editore, Premio Strega 2017) portato sul grande schermo da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, e quei due sono Pietro (Luca Marinelli adulto) e Bruno (Alessandro Borghi adulto), l’uno di città, l’altro montanaro, che bambini, ragazzini e uomini scriveranno tra i monti i propri destini incrociati.
Prodotto da Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa per Wildside, società del gruppo Fremantle, scritto dagli stessi registi (il belga van Groeningen, classe 1977, ha in carnet Alabama Monroe e Beautiful Boy), Le otto montagne è in competizione al 75. Festival di Cannes e arriverà nelle nostre sale con Vision Distribution.
L’incontro tra Pietro, i cui genitori sono incarnati senza infamia né lode da Timi e Lietti, e Bruno avviene a Grana, Valle d’Aosta, alle pendici del Monte Rosa: dopo aver stretto un’amicizia profonda, i due si perdono di vista, scontando entrambi rapporti difficili con i propri padri. Invero Bruno lega con il papà di Pietro, che al figlio lascerà in eredità proprio l’amicizia con Bruno e la montagna, segnatamente un rudere da ristrutturare. Riusciranno così vicini così lontani, così uguali così diversi i due uomini a ricostruire la relazione?
Una leggenda nepalese riportata da Pietro illumina la via: vuole che al centro del mondo ci sia un monte altissimo, il Sumeru, attorniato da otto montagne e otto mari, e i nepalesi si chiedono se avrà imparato di più dalla vita l’uomo che ha scalato il Sumeru o quello che ha esplorato le otto montagne, da cui il titolo. Il primo è Bruno, arroccato in una solitudine alpina che ne pregiudica non solo l’interazione con l’amico, ma anche con la compagna e la figlia, il secondo è Pietro, che ai piedi dell’Himalaya troverà l’amore, ma senza dimenticare il suo – è così? – alter ego: due di due, talvolta due di uno, infine uno di due.
L’adattamento è fedele, nella lettera e nello spirito, e se possiamo sicuramente stigmatizzare la voce over di Marinelli, altresì dobbiamo riconoscere un lavoro puntuale, empatico, sincero.
Certo, è facile con quei paesaggi, con quella natura – occhio a chiamarla così che Bruno dissente, ma chiediamoci: un formato panoramico non avrebbe giovato? – meravigliosa, con quella spinta ascensionale da mozzare il fiato e la visione, ma la fotografia (Ruben Impens) ha più di un merito, al netto appunto dell'aspect ratio ingeneroso. Anche l’alveo in cui si inserisce il film è singolare e significativo: un film d’avventura, di maschia e ruvida amicizia, con lampi di bromance, che nell’aura ci fa rievocare la nostra infanzia, sia per le montagne che per la letteratura.
E poi ci sono loro, Marinelli e Borghi, entrambi reduci da prove opache e inappetenti (Diabolik per l’uno, Mondocane e Supereroi per l’altro) che ritrovano l’alchimia di Non essere cattivo (2015) e singolarmente sé stessi: sono bravi, diremmo, sono amici e lo trasmettono come il film richiede, come meglio non potrebbero, con menzione speciale per Borghi e il suo dialetto – no, non era facile, sebbene stia diventando, vedi Favino, un pericoloso rito di passaggio per i nostri interpreti principali.
Non c’è da dire molto altro, Le otto montagne è un film medio con, ehm, alcune vette: l’ambientazione, i protagonisti, la musica di Daniel Norgren. Forse più d’acchiappo che da arrampicata, tant’è.