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Le nevi del Kilimangiaro
Gli ideali socialisti di Michel, un sindacalista, vengono messi a dura prova dopo che l'uomo è rimasto vittima con la moglie di una rapina. Avendo riconosciuto nel ladro un ex collega appena licenziato, Michel corre a denunciarlo convinto di agire nel giusto. Ma se ne pentirà.
E' Le nevi del Kilimangiaro di Robert Guèdiguian, film che fa il paio con Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki. Non solo perché l'eroe di entrambi i film è il bravo Jean-Pierre Darroussin, ma per la sostanziale unità d'intenti - poetici e ideologici - dei due lavori: come nel Miracolo, anche qui emerge la volontà di rifare il cinema politico con i mezzi della favola, superando le attuali contraddizioni del proletariato (incapace oggi di "farsi classe") ricorrendo all'utopia. Così, gli ultimi di tutto il mondo - la cui prosaicità di vita viene contrappuntata pasolinianamente dal ricorso alla musica sacra - finiscono per riunirsi per un prodigio del discorso, ma a differenza del collega finlandese Guédiguian non sa essere altrettanto leggero.
Per un vecchio battagliero di sinistra come lui, le lacerazioni del reale sono troppo profonde per essere ricucite dal cinema e troppo evidenti per non ricordare i fallimenti delle speranze rivoluzionarie. Ecco perché, tra una citazione di Victor Hugo (il film è ispirato al poema Les pauvres gens) e un'altra di Jean Jaurès (padre della socialdemocrazia francese), Le nevi del Kilimangiaro - dal titolo di una vecchia canzone di Pascal Danel - soffre di nostalgia, misura di una distanza incolmabile tra il tempo interiore del protagonista e quello del mondo che il film è costretto a registrare. Un'aritmia che si riflette soprattutto nel rapporto saltato tra le generazioni (i figli di Michel sono ripiegati sul loro privato) e nella dimensione volutamente agée della messa in scena, di cui il ricorso al 16 mm è solo l'aspetto più vistoso.
Peccato che lo sguardo aperto sul futuro (l'utopia) non riesca a fondersi in maniera convincente con l'elogio del tempo che fu, provocando un cortocircuito interno da cui il regista per primo sembra spiazzato.