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Alvise Marascalchi in Le mie ragazze di carta
Dopo Io e mio , ecco Le mie ragazze di carta: nel 2023 Luca Lucini firma fratello un dittico all’insegna delle giovani rivelazioni e scoperte di sé. La famiglia come recinto d’esplorazione dell’identità, la commedia come minimo comun denominatore e lente d’ingrandimento dei legami.
Nel film distribuito su Amazon Prime, la giovane Sofia (Denise Tantucci) riscende da Nord a Sud in un viaggio gravido di rivelazioni. Qui, invece, siamo nel fatidico 1978: il campagnolo Primo (Andrea Pennacchi), diventato postino dopo un esame di maturità farsa, si trasferisce con la moglie Anna (Maya Sansa) e il quattordicenne Luca (Alvise Marascalchi, all’esordio su grande schermo) nella grande città, Treviso in un appartamento familiare fronte cinema, trasformato in una sala a luci rosse.
Il taciturno adolescente si divide tra la squadra di rubgy e i compiti d’inglese, fin quando nel buio della sala, trascinato da Giacomo (Christian Mancin), scafato compagno di banco nonché figlio del gestore del cinema, scopre improvvisamente la pubertà nelle fattezze irresistibili della pornostar Milly d’Italia, ingorando le avances della candida Marika, sua coetanea.
Ma il Bildungsroman a sfondo autobiografico, appena risciacquato in certi stilemi da commedia sexy, s’invischia presto in un gomitolo di sottotrame di corredo, che lo rendono basico, lasco, usuratissimo. Ritmo soporifero, stramberie di trama, corriva caratterizzazione dei personaggi, contesto storico sbiadito, il film – passato in anteprima al Bif&ST 2023 – si trascina stancamente verso il più telefonato dei finali, nonostante il cast, sia artistico che tecnico, d’alto lignaggio.
Perché accanto (o addosso) al coming of age, Lucini almanacca in disordine: la nostalgia della campagna nell’Italia del boom; la crisi della sala; mamma Anna che sogna la tv a colori come status symbol; papa Primo che supera la sua intolleranza conoscendo il trans Claudio (il fido Cristiano Caccamo, coprotagonista anche di Io e mio fratello); la maldicenza popolare; l’orfanezza; il porno come sfida all’ipocrisia dell’Italia bacchettona anni Settanta; la sala come luogo d’educazione sessuale; un Neri Marcorè prete e allenatore della squadra parrocchiale di rugby con una famiglia segreta (?) in Bolivia.
I dolori del giovane Tiberio, così, tra ormoni e sentimento, tra Milly e Marika, mai sviscerati a fondo, finiscono banalizzati, tramortiti sotto i colpi della sovrabbondanza dispersiva di trama e della semplificazione umorale di sentimenti e pulsioni.
Anche così si spiega perché lo sguardo cinematico di Lucini, per troppo filmare e poco ponderare, si faccia alla lunga fuligginoso e (quasi) macchiettistico; la leggerezza miscelata con l’umorismo (Amore, bugie e calcetto) che cifra tutto il suo pedigree, qui scade in bolsa frivolezza senza brio.
Senza contare, poi, le scene sconnesse, senza amalgama, inzeppate di scarti improvvisi e semplificazioni: su tutte Tiberio che raggiunge Roma in autobus, ma respinto dal carcere dov’è reclusa Milly d’Italia, se la ritrova seduta accanto in piazza prima di ripartire.
L’impressione finale, allora, è che gli sparuti pregi del film siano prenarrativi, che il meglio, insomma, inizi dove finisca la scrittura nonostante o malgrado, scegliete voi, l’ipoteca del Premio Solinas al soggetto (dello stesso Lucini con il compianto Spinelli): la morbidezza tonale della fotografia di Ukaj Amelio che ondeggia tra fiction e nostalgie cinefile; le ottave leggiadre del piano di Piovani; qualche carrello sui ragazzi che scorrazzano con la moto in spiaggia; la congruenza della recitazione (Pennacchi all’ennesimo ruolo da veneto villereccio); e un pugno di cartoline aeree di Treviso, invero più promozionali che narrative, ma c’è lo zampino della Veneto Film Commission, tra i co-finanziatori di una commedia dai costi non eccessivi, ma certo neanche irrisori (più di tre milioni di produzione, quasi uno di tax credit).