Il ritorno di Michel Gondry, otto anni dopo Microbo & Gasolina, coincide con un nuovo, gustoso come back dello sceneggiatore-regista francese (premio Oscar per lo script di Eternal Sunshine of the Spotless Mind) sui lidi della commedia grottesca e paranoide, tanto cara anche al sodale di un tempo Charlie Kaufman (quante similitudini con il “loro” Ladro di orchidee qui...), ma anche dalle parti dell’inventiva del sottovalutatissimo Be Kind Rewind: Le livre des solutions (The Book of Solutions) – alla Quinzaine di Cannes 76 – è un irresistibile autoritratto di un regista in costante crisi con se stesso e con quei pochi che ancora resistono alla sua follia.

L’inizio del film è folgorante: Marc (un gigantesco Pierre Niney) viene liquidato dai produttori del suo nuovo film in lavorazione, Anyone, Everyone, durante la visione del primo girato. Per evitare che siano loro a metterci le mani, scatta il “Piano B”: trafugare in fretta e furia tutta l’attrezzatura necessaria al montaggio finale e rifugiarsi da Parigi nella casa di campagna della vecchia zia, Denise, interpretata da Françoise Lebrun (a quanto pare è la vera casa della zia di Gondry, Suzette, alla quale il film è dedicato).

Insieme a Marc la fidata montatrice Charlotte (Blanche Gardin) e l’assistente Sylvia (Frankie Wallach). Ma terminare quel film – cosa che verrà rimandata in continuazione – sarà solamente uno dei numerosissimi “progetti” che la mente del regista partorisce senza soluzione di continuità, tra intuizioni e vicoli ciechi entusiasmanti ed inquietanti.

Divertentissimo – di fatto si ride dalla prima all’ultima scena – e ricco di trovate sorprendenti, Il libro delle soluzioni è il “capolavoro” letterario di Marc (peccato si sia fermato al titolo però), alter ego dichiarato del Gondry prima maniera, che si libera degli psicofarmaci e diventa un fiume in piena di creatività folle e manie incontrollabili: dalla presunzione di ingaggiare un’orchestra per una partitura che ancora non esiste e che i musicisti dovranno eseguire semplicemente seguendo i movimenti del suo corpo (momento altissimo) alla richiesta di partecipazione di Sting (momento cult), passando per la costruzione di una sala montaggio all’interno di una cabina di un camion e di un frammento animato che renderebbe il film palindromo, l’opera di Gondry è l’autoritratto irresistibile di un uomo impossibile, di un artista geniale impossibile da ingabbiare nelle logiche di produzione di un cinema industriale, di un regista che alla prima del suo film supplica il pubblico di dirgli con tatto (o di non dirgli affatto, meglio) se lo stesso non è piaciuto, per sparire poi dalla sala attraverso un tunnel profondissimo scavato sullo schienale della poltrona. 

Ma è anche, e soprattutto, una dichiarazione d’amore alle persone che gli vogliono bene, che ancora ne sopportano gli eccessi e i cambi d’umore, che si prestano – come la zia – ad essere innaffiate per interminabili minuti per ricreare una scena sotto la pioggia o che sono costrette ad essere svegliate nel cuore della notte per prenotare studi di registrazione o rimontare il film partendo però dalla fine: “Una cosa che non ha mai fatto nessuno!” – “Evidentemente perché non è mai stata una buona idea...”. – “Idea, lo dice parola, è quando inventi qualcosa di nuovo”.

Ecco, Michel Gondry, l’idea di un cinema che continui a sorprendere per libertà d’invenzione ed empatia nei confronti della follia.