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Chi sono le Eumenidi nell’omonimo film di Gipo Fasano? Non figure e nemmeno allegorie delle Erinni di Eschilo. Piuttosto suggestioni. Sentore di minaccia latente. L’attesa di una condanna per una colpa indefinita, però palpabile.
Possono venirci in soccorso altre Eumenidi di matrice letteraria, Le Benevole del romanzo d’esordio di Jonathan Littel: lì era il nazismo dal punto di vista di un ufficiale omosessuale, insieme estraneo e correo a un maligno sistema massificante.
Mutatis mutandis, è l’analoga esperienza di “conformismo apocalittico” a caratterizzare Valerio e la sua comitiva di amici.
Girato interamente con uno smartphone, da cui Fasano e i suoi collaboratori stingono gli accessori espressivi di gamma con risultati estetici da cinema avant-garde (bianco e nero espressionista, distorsioni ottico-sonore, immersione in uno spazio senza contorno), Le Eumenidi vuole azzannare un malessere generazionale senza nome, fino alla polpa: la colpa.
Matricidio dell’Idea. “L’ho uccisa”, ripete come un disco rotto la voce off del protagonista, unico indizio di una coscienza non annientata nell’istantaneità dell’esserci. Ha ucciso la possibilità stessa da cui generarsi, da cui generare azioni che abbiano senso. Le parole però non sono sue. Sono parole antiche, che può solo ripetere a memoria. Quelle originali le ha perse, in mezzo al “coro” di trucide afasie e bestemmie.
Stasimo e parodo di una tragedia senza atti.
Non resta che andare. La fuga di Valerio/Oreste attraverso le diramazioni di una Roma senza capo né coda – estensioni di frivole divagazioni - non indica una traiettoria in uscita, piuttosto l’uscita da ogni traiettoria. L’Olimpico, Piazza San Pietro, Corso Francia, o del vagabondare senza meta, neppure al termine della notte. Indicazioni geografiche apatiche, sostare attraversare passare oltre.
L’indifferenza la si nota, mentre il resto sfuma, nero e rumore di fondo.
Fasano si lancia (letteralmente) nel vuoto di questi odierni «Ragazzi dei Parioli», meno cattivi di quelli di Corbucci ma ugualmente disperati, cercando però empatia, non giudizi. Perché questa gioventù post-tutto, senz’ altra destinazione se non quella di “ammazzare” il tempo, che sia una matriciana, una striscia di coca, una festa, un intermezzo teatrale, si è già condannata da sola. L’informe esperienziale di una generazione senza padri né padroni, senza classi e senza lotta, sprovvista di coscienza politica e di spessore escatologico, è il rimosso che torna sotto forma di rimorso dalla prosa della vita, non della mitologia. Riguarda loro, riguarda noi.
L’accondiscendenza è sferzante, il monito pop. Questo vento agita anche me.