Che vi piaccia o meno il genietto (?) gallico Quentin Dupieux, Le deuxième acte non è il suo film migliore.

Scelto da Thierry Frémaux e sodali per inaugurare - fuori concorso, ci mancherebbe - il 77° Festival di Cannes, si mette in buon ordine nella non esaltante teoria di aperture ultime scorse. Uscito in contemporanea nelle sale francesi (da noi deve ancora arrivare il precedente Daaaaaalí!), deve forse l’onore alla dichiarata volontà di Frémaux di affrancare il festival dalle polemiche, e segnatamente quelle in quota #MeToo, dopo l’improvvida decisione di aprire l’anno scorso con Jeanne Du Barry e il reprobo Johnny Depp.

Sicché Dupieux, che dirige un cast – i francesi sì che l’hanno, lo star system – stellare con Léa Seydoux, Vincent Lindon, Raphaël Quenard e Louis Garrel manda la palla in tribuna, rispetto alla temperie della Croisette, e stigmatizza la minaccia dell’AI, mettendo quale film nel film il primo scritto e diretto dall’intelligenza artificiale. Il tema è urgente e oltremodo sensibile Oltralpe, ma dovremmo forse fare il pliè dinanzi a Mr. Oizo, l’alter ego di Dupieux, per averlo voluto annoverare?

Che poi a ben vedere, anche se non c’è nulla da vedere bene, non s’avvicina questo secondo atto alle nostrane Comiche con Pozzetto e Villaggio? No, siamo seri, eppure.

La scena clou dell’opera tredicesima di Dupieux trova un cameriere (Manuel Guillot) intento a mal-versare il vino al tavolo dei quattro: sì, si ride, ma non l’avevamo già visto?

Per il resto, penna e camera del Nostro prendono di mira lo showbiz gallico, mettendo alla berlina degli happy few futilità, tic, vizi e… noia: per carità, gli attori – nota di merito a Quenard – non sono affatto male, anche se il tutto paia apparecchiato in due lunghi weekend, ma il gioco delle coppie innaffiato di Borgogna e metacinema non esalta, ripiegandosi com’è sul garbato cinismo, il contenuto nonsense e l’ilarità con modesto beneficio d’invenzione.

La scrittura e la regia – ve lo ricordate Il grande capo, quello sì era una meraviglia… - del film nel film cincischiano, verità e finzione s’abbracciano per fare la morale (e il più povero ci lascia le penne), e che vogliamo di più, se non un icastico finale: un binario morto, anzi, mortaccino tra sonno e realtà.