Incastrati tra la vita (o la sua rappresentazione) e la morte (annunciata, quindi certa), i personaggi di Le déluge (il sottotitolo si concentra su un pezzo per acchiappare un pubblico: Gli ultimi giorni di Maria Antonietta) sono prigionieri di un tempo sospeso e fantasmatico. Segni di un sistema travolto dalla rivoluzione, questi corpi sembrano via via disincarnarsi da loro stessi e, scontornati da quadri che ne hanno eternato fattezze e magnificenze, appaiono come figure evidentemente grottesche, ridicole perché fuori luogo, spaesate in quella reggia che era tutto il loro mondo ed è diventata il set di una morte in diretta.

Se è vero che essere fotografati è un po’ come morire (l’obiettivo è un mirino), Maria Antonietta e Luigi XVI – con relativi congiunti e cortigiani – sono protagonisti di un teatro anatomico in cui il tableau vivant cattura la fine e la sua messinscena, con Versailles e i suoi pavimenti a scacchi a riprodurre il cimitero di quel che resta delle anime annichilite dalle parrucche e dai merletti.

Dopo Il cattivo poeta, Gianluca Jodice continua il suo viaggio al termine della notte: lì c’era un reduce di se stesso, un corpo già immolato al vitalismo e minato da un vizio di vivere che rinnova eternamente la sfida con l'oscura signora; qui ci sono due ex potenti assediati dal popolo (una testa mozzata nascosta in un sacco a ricordare chi tiene il manico del coltello), due fantocci che provano a resistere al destino ineluttabile, due maschere tragiche che tornano all’origine del Carnevale (quel che precede l’indulgenza e il sacrificio).

Anche qui, come nell’esordio, Jodice (anche sceneggiatore con Filippo Gravino) riflette sul conflitto tra vita e rappresentazione, sulla poesia che abdica al cospetto della cronaca, sulla dimensione spettrale di una realtà che mutando deve ricalibrare i propri parametri.

Dal profilo sempre più spigoloso di Mélanie Laurent, un corpo giovane ma già devastato che mette in campo l’ultima possibilità di imporsi quale massimo oggetto del desiderio (a testimoniare lo statuto di regina lussuriosa e ostinata), al faccione bolso in modo volontariamente posticcio di Guillaume Canet, il delfino spiaggiato che trova un moto di dignità quando si lascia crescere un’imprevista barbetta, tutto in Le déluge racconta il disfacimento morale (le violenze sessuali e le uccisioni barbare), materiale (gli arredi e i saccheggi), simbolico (la regina che suona la Marsigliese), affettivo (come si accompagnano i figli alla morte?).

Il risultato è, qua e là, accidentato se non faticoso e più che perturbante si rivela curiosamente malsano, una specie di incontro tra il rigore di Roberto Rossellini e la divergenza di Elio Petri, ma il fascino è indiscutibile, complici i contributi decisivi di Daniele Ciprì (la fotografia che denuda e desatura), i costumi di Massimo Cantini Parrini (uno che sa sempre reinventare un’epoca restandovi fedele), le scenografie di Tonino Zera (stranianti e attendibili).