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L’Italia ha ritrovato il suo cinema fondativo. Quello dalla parte degli ultimi, quello fiabesco e popolare di Citti e di Pasolini, di Scola e di Comencini. Quello della terra e della natura, arcaico e sospeso, che tanto era caro al compianto maestro Ermanno Olmi.
È il cinema fanciullo, libero e “bislacco” per dirla con le sue stesse parole, di Alice Rohrwacher. Che alla sua terza prova da regista riesce ad andare al di là dei già meritori Corpo celeste e Le meraviglie, compiendo un balzo in avanti che assume le sembianze del volo.
È Lazzaro felice, un film capace di riportare lo sguardo lì dove la ragione, troppo spesso, ti impedisce di arrivare. Di entrare in una chiesa perché richiamato dal suono di un organo con Bach in lontananza, per accorgerti, una volta fuori, che quella musica ha iniziato a seguire te.
Non è facile, lo ammettiamo, di fronte ad opere di questo tipo, affrontare un’analisi che provi a tenere separati l’oggetto filmico dalla sua dimensione più incorporea, spirituale. Ma allo stesso tempo è semplice lasciarsi accogliere in questo racconto dove il realismo magico, il disincanto, riescono a tracciare percorsi di senso altrimenti impossibili da cogliere.
Alice Rohrwacher ci riporta in un universo neanche troppo lontano, ma che può sembrare lontanissimo. Ci presenta una numerosissima famiglia di contadini (tutti, o quasi, attori non professionisti), ancora sotto padrone, alle prese con la fatica quotidiana. La fatica ripagata con nulla, eppure la gioia di vivere non manca. Tra di loro c’è Lazzaro (Adriano Tardiolo), ragazzino nemmeno ventenne, il classico ultimo della fila, mai una parola fuori posto, sempre disponibile a qualsiasi cosa.
Mezzadri quando la mezzadria era stata già bandita per legge, servi della marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), madre di Tancredi (Luca Chikovani), coetaneo annoiato e viziato di Lazzaro, che sfrutterà l’ingenua bontà di quest’ultimo per fingere di essere stato rapito.
Ma per Lazzaro, quella è un’amicizia che nasce vera. E attraverserà intatta il tempo che passa e le conseguenze dirompenti della fine di quel “Grande Inganno”, portando Lazzaro nella città, enorme e grigia, alla ricerca di Tancredi.
È qui che il salto nel vuoto della Rohrwacher (premiata a Cannes per la sceneggiatura in ex-aequo con Three Faces di Panahi), rischioso e incantato, si compie pienamente: un balzo in cui il tempo segnerà il passaggio che lei stessa – parafrasando Elsa Morante – definisce quello tra il primo e il secondo medioevo, tra un medioevo storico e un medioevo umano. Quello in cui la democrazia trae in salvo gli schiavi per gettarli poi, soli, in un sistema comunque chiuso, e classista.
Lo scenario cambia, il "caldo" della natura ha lasciato il posto al freddo incolore della metropoli: due poveracci (uno è Sergi Lopez) fungono da traghettatori inconsapevoli dell’unica cosa, entità, a non essere mutata.
Lazzaro, che metaforicamente risorto, si ritrova immutabile come solo il Bene può esserlo, sul cammino di quei contadini non più tali. E cambiati, cresciuti, invecchiati. Antonia (da giovane era Agnese Graziani, ora è Alba Rohrwacher), che da ragazzina era stata l’unica a preoccuparsi della sua scomparsa, ora è l’unica a riconoscerlo senza esitazioni. Ad accoglierlo.
Perché Lazzaro – al quale l’esordiente Tardiolo dona un’adesione talmente irreale da apparire meravigliosa – è portatore di quella assurda “santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”.
Ed è ancora l'unico, pur in una storia dove il bene e il male sono così facilmente individuabili, a non esprimere mai un giudizio.
Scoprendo però, ad un tratto, di non essere più felice come un tempo, pur ritrovando lontano dalla campagna un’altra luna da fissare. Scoprendo di saper soffrire, e sempre in nome di una bontà "folle", capace di compiere scelte sbagliate, ma comunque incapace di far soffrire gli altri. E questa, “povero scemo”, sarà la sua colpa definitiva.
Un cinema che è epifania, un cinema di corpi celesti e meraviglie. E di Lazzaro. Un cinema felice.