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Valeria Bruni Tedeschi in L'attachement
Al quinto lungometraggio in diciassette anni, Carine Tardieu ci dimostra anzitutto che si può dirigere Valeria Bruni Tedeschi senza assecondarne i cliché, emancipandola dal typecasting, tenendo negli argini la sua personalità dirompente. Nei centosei minuti di L’attachement (presentato in Orizzonti a Venezia 81), Bruni Tedeschi è meravigliosa: interpreta una libraia femminista (“un male necessario”) che ha deciso sin da piccola di non essere né madre né moglie disobbedendo alle norme sociali (ma la madre non se ne duole e la sorella ha fatto cinque figli), che vive immersa nei libri (il suo preferito è il graphic novel La leggerezza) e fuma continuamente, salta i pasti perché non ha voglia di cucinare e non fa entrare nessuno in camera da letto (gli incontri occasionali avvengono in sala).
Tardieu – che ha adattato il romanzo L’Intimité di Alice Ferney insieme a Raphaële Moussafir e Agnès Feuvre – le offre un personaggio complesso, che si protegge dietro grandi occhiali da vista, predilige i vestiti larghi e cammina con le mani in tasca: un’occasione per far vedere gli spigoli e le ombre di questa grande attrice spesso condannata a incarnare donne balbettanti e insicure, senza comunque rinunciare alla sua specifica capacità di rappresentare gli inciampi e le malinconie di chi guarda il mondo con sorridente disincanto.
È la donna della porta accanto, Bruni Tedeschi, letteralmente: è la vicina a cui una giovane coppia che, dovendo andare in ospedale per il parto della seconda figlia, affida il primogenito, un bambino di sei anni piuttosto sveglio che lei proprio non sa come prendere (César Botti, molto naturale). Quando una tragedia spezza la felicità della famiglia, il padre (Pio Marmaï, sempre bravo) deve trovare le forze per tenere tutti i pezzi: sarà la vicina a dargli una mano, scardinando la corazza creata forse per troppe convinzioni e scoprendo dentro sé una inaspettata vocazione materna.
Il titolo si riferisce alla differenza tra amore e, appunto, attaccamento, evocata dal padre biologico del bambino (Raphaël Quenard si conferma adattissimo a ritrarre le mine vaganti) e tutto sommato mai spiegata (“Ne parlerò nel mio saggio” scherza lui, che viene da una famiglia di allevatori di ostriche e osserva con distacco e fascino la professione intellettuale di Bruni Tedeschi). Una mancata esplicazione che dà l’idea di quanto questo film che attraversa due anni (i capitoli seguono i mesi di vita della bambina, presenza evidentemente simbolica) preferisca dare spazio all’azione piuttosto che alla spiegazione, ai sentimenti vissuti senza filtri anziché alla loro concettualizzazione, ai gesti che edificano relazioni e non agli schemi che incastrano temi.
Più che teorizzare un nuovo tipo di famiglia, L’attachement racconta come persone non necessariamente legate da vincoli di sangue (c’è anche Marie-Christine Barrault nel ruolo della nonna dei bambini) riescano a trovare le risorse e le possibilità per instaurare relazioni profonde, facendosi carico l’uno dei dolori dell’altro, scegliendo di camminare insieme anche quando le strade si dividono (l’ultima parte è un tripudio di arrivederci non voluti e struggenti addii, come quello all’aeroporto che ci ricorda quanto sia difficile ammettere di aver amato qualcuno). Una famiglia, insomma. E ci ricorda anche il paesaggio romantico delle donne adulte, in continuità con il precedente I giovani amanti. Un film tenero e limpido, pieno di grazia e dolcezza (la costruzione del rapporto tra Bruni Tedeschi e Botti è a tratti commovente), borghese solo agli occhi di chi si ferma alla forma.