2086. La Terra è una landa di macerie. L’umanità è estinta. Ma il cinema sopravvive.

Un giovane africano apolide, autodidatta, senza legami vagola senza meta per l’Europa. La sorella, prima di morire, gli ha consegnato “un bracciale” fatto intrecciando una vecchia pellicola cinematografica. Tanto basta per attraversare un mondo fatto di rifiuti e calcinacci e valli e deserti senza vita né acqua alla ricerca del suo luogo di creazione.

Discendendo la Francia verso l’Italia lo troverà nelle viscere della Cineteca di Bologna (che al di là della bizzarria meta-cinematografica, distribuisce anche il film) ridotta a caverna diroccata. Tra feticci cinefili, sale deviscerate, tra Barry Lindon e L’uomo con la macchina da presa, tra Buster Keaton e Buñuel, il protagonista è iniziato allo sbalordimento del cinema da un ex regista cencioso e ultracentenario (Nick Nolte) ridottosi a vivere da larva nelle viscere della Cineteca.  Dopo la scoperta del cinema, quella della camera. Il regista consegna al ragazzo i pezzi da assemblare per rianimare una cinepresa. L’ultima sulla Terra. L’ultimo testimone della devastazione del mondo, dopo quella l’umano.

Anziano e giovane cineasta, memoria e futuro, esperienza e sfrontatezza, allora, camera in spalla si spingeranno verso un cammino verso Atene, nel cuore della classicità, scaturigine della civiltà occidentale. Lì, dove una comunità di superstiti, tra medici e donne giovani e anziane, si è radunata per sopravvivere alla devastazione.

Nossiter oscilla tra persistenza della memoria e collasso del presente, tra istinto a conservare, ed estinzione della specie.

In questo sprofondo dell’umano, allora, solo il Cinema, mitizzato come custode di sensi e narrazioni, scandisce il Tempo, si erge come bussola del Nulla.

Dimenticate, però, il solito sconforto nichilista che circonfonde l’apocalisse al cinema: Nossiter, pur insistendo visualmente su una devastazione dai contorni biblici, e dai toni epici – intere città tra Francia e Italia ridotte a calcinacci, lande desertiche un tempo valli fertili e un Mar Rosso a cingerle tutte – non alza bandiera bianca, non si consegna alla disperazione inoperosa.

Niente epitaffio rancoroso della civiltà umana, né processo alle intenzioni (e alle azioni). Le sue creature, anche le più enigmatiche ed fragili, anche le più sdilinquite, inette e spaesate, custodiscono un’aura di benigna tenerezza, di disarmata speranza. Non si chiedono più da dove vengono, non rimuginano sul passato, né sulle conseguenze delle loro azioni. Semplicemente, in nome di un glorioso passato, conservano estreme e radicali forme di convivenza.

Così il calore umano, la capacità di rimanere in piedi davanti alla deflagrazione del mondo, il nocciolo simpatetico della storia, riesce, miracolosamente, a ridimensionare, se non oscurarne imperfezioni (forse più produttive che artistiche), voli pindarici e varie astrusità.

Tra il documentarismo dei campi lungi e l’umanità di dolenti primi piani, Nossiter rilegge Mes derniers Mots di Santiago Amigorena, e interseca il road movie con la favola ecologica, con sincerità d’intenti, chiarezza valoriale e una pulizia discorsiva, anche negli snodi più criptici e fantasiosi.

Perché centro di gravità permanente è il cinema. Cinema come pacere, intrattenimento, conoscenza, ma soprattutto come collante sociale, unico patrimonio trasversale d’umanità varia e disgregata. Da una parte l’idealizzazione dello strumentario, della meccanica che preesiste alla creazione delle immagini in movimento – il ragazzo e il regista che assemblano la macchina da presa, e creano la pellicola per girare- , dall’altro la prossimità dello spazio, l’affratellamento vitale e catartico di sale improvvisate ai piedi dei templi greci.