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L'arte della gioia - Foto Paolo Ciriello © 2023 Sky Italia
Modesta(mente). Lo fa sin da ragazzina, quando scampata dall’incendio della sua casupola nella Chiana del Bove, trova ricovero in un convento di suore. Selvaggia e ferina, viene accolta e protetta dalla Madre Superiora Leonora (Jasmine Trinca), che la educa al sapere e la indirizza al noviziato. Ma Modesta (Tecla Insolia, una volta ragazza), ormai quasi donna, intravede qualcosa di più in quell’affetto.
È solamente l’inizio di un’epopea, quella di Modesta, raccontata nel romanzo “maledetto” di Goliarda Sapienza (autrice che sarà al centro del nuovo film di Mario Martone, tuttora in lavorazione), L’arte della gioia (che riuscì a far pubblicare la prima parte solamente nel ’94, poi nel ’98 grazie agli sforzi del marito, l’attore Angelo Pellegrino (sì, quello degli “occhi pallati” nella Coppa Cobram di Fantozzi contro tutti, Stampa Alternativa lo editò in pochissime copie; solamente nel 2008 Einaudi lo pubblicò, a 32 anni dalla stesura…), che ora Valeria Golino traduce (liberamente, in scrittura con Luca Insfascelli, Francesca Marciano, Valia Santella e Stefano Sardo) in formato seriale per lo schermo (sia grande – la prima parte in sala dal 30 maggio, la seconda dal 13 giugno, con Vision Distribution – sia piccolo, successivamente arriverà su Sky e in streaming su NOW).
In sei episodi (il primo in première mondiale al 77° Festival di Cannes, dove la regista è di casa, quest’anno anche protagonista di una masterclass) viene restituita la prima parte del romanzo (sono 4 in tutto), quella che va appunto dall’infanzia della protagonista, passando per l’esperienza nel convento, poi per l’approdo alla villa della Principessa Gaia Brandiforti (Valeria Bruni Tedeschi, irresistibile come di consueto), madre di Leonora, dove si renderà indispensabile ottenendo sempre più potere nel palazzo, fino all’arrivo al palazzo di Catania.
Ambientata tra il 1909 e il primissimo dopoguerra, con l’arrivo della febbre spagnola a far ripiombare nell’incubo chi pensava che il peggio fosse alle spalle, L’arte della gioia sa legare il racconto di grande respiro (cosa che diventa più evidente nella seconda parte, quando scopriremo i trascorsi di Leonora e tutti gli intrighi relativi a casa Brandiforti) alle nuove logiche che regolano l’intrattenimento d’autore: Valeria Golino (e Nicolangelo Gelormini, che dirige il quinto episodio) piegano la densità e la “scandalosità” del romanzo d’origine (scritto tra il 1967 e il 1976) seguendo le traiettorie di una narrazione che sa alternare l’impianto drammaturgico classico – in fondo si tratta di un lunghissimo coming of age che porterà Modesta ad elevarsi dalla fanghiglia delle sue umilissimi origini fino al rango di principessa… – con gli svolazzi di un linguaggio filmico ultramoderno, le bellissime musiche dell’islandese Tóti Guðnason (Lamb) e gli innegabili, ben visibili, sforzi produttivi (Sky Original, prodotta da Sky Studios e da Viola Prestieri per HT Film).
In questo continuo chiaroscuro che determina in maniera lampante anche il percorso del personaggio centrale, ruolo di affascinante ambiguità che Tecla Insolia sa governare con sorprendente equilibrio, si fa preponderante il ricorso ai flashback (alcuni episodi decisivi della sua infanzia, come la violenza subita dal padre, la morte della capra, il primo approccio con l’amichetto Tuzzu, etc., arrivano in altrettanti momenti cruciali della sua seconda vita) e assume sempre più importanza l’insistito ma mai banalizzato riferimento all’ombra che, in più di un’occasione, accompagna l’incedere di Modesta (insieme a quella carrellata evocativa nel campo bordo strada dove, di volta in volta, si aggiungono i morti che la ragazza si lascia dietro di sé), che in quell’incendio iniziale perde la madre e la sorella maggiore, disabile, solamente le prime due di una lunga serie.
Sicuramente audace nel saper restituire quel tumulto d’emancipazione che animava le pagine del libro, la serie – cosa peraltro mai nascosta dalla Golino anche durante la lavorazione – non vuole farsi trasposizione “fedele” per quello che riguarda l’intera dinamica di fatti e/o situazioni, piuttosto incarnare del romanzo la mutevolezza e lo squilibrio che ne caratterizzava l’indole, così sfumata, irregolare e anche per questo difficilmente collocabile in “un” genere.
Period drama, romanzo di formazione a tinte gotiche, contrapposizione tra vita agreste (“la puzza di povero ti accompagnerà per sempre”) e agiatezza nobiliare, tutto convive e si mescola proprio come tutto convive e si mescola nell’intimo della protagonista, mossa da una strategia predeterminata ma al tempo stesso incapace di svincolarsi dalla pulsione delle più svariate passioni, dapprima per Leonora (Jasmine Trinca in un ruolo sempre in bilico tra eterea sensualità e ambiguità), poi per Beatrice (Alma Noce), la più giovane della casata Brandiforti, per Carmine (Guido Caprino, al solito con un carisma e una presenza scenica indiscutibili), l’uomo che gestisce le terre adiacenti la villa, finendo però sposa del figlio deforme di Gaia, Ippolito (Giovanni Bagnasco), unico erede della casata.
È dunque sfruttando in superficie le logiche più convenzionali della società patriarcale che Modesta (Mody come la ribattezza Gaia, in fondo “che tristezza” quell’aggettivo che aveva per nome…) persegue il suo disegno di libertà per svincolarsi dall’oppressione di un’esistenza che altri hanno stabilito per lei: “Col tempo, la critica più avveduta provvederà a mettere in luce gli aspetti stilistici e strutturali. Magari finirà con lo stabilire che Mody è il personaggio femminile più vivo del nostro Novecento. Goliarda scriveva come leggeva, da lettrice, scriveva per i lettori più puri e lontani, con abbandono lucido e insieme passionale, affettuoso e sensuoso, attenta ai battiti cardiaci di un'opera, più che ai concetti e alle forme”, scriveva Angelo Pellegrino a proposito del libro (prefazione disponibile sulla pubblicazione Einaudi).
E Valeria Golino, in fondo, con il suo esordio seriale dopo i due bei film da regista (Miele, Euforia), ha tentato di traslare proprio questo, il battito cardiaco dell’opera prima ancora che la sua forma, restituendone la matrice passionale ma senza ridurla a semplice e stucchevole manifesto ideologico.