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L'Apollonide
Souvenirs de la maison close, ma il punto è: quali souvenirs? Decisamente a buon mercato, perché di cinema ne L'Apollonide di Bertrand Bonello, in Concorso per la Palma, ce n'è poco, e di bassa qualità.
A cavallo del XX secolo, una casa chiusa vive gli ultimi giorni di vita: Hafsia Herzi, Jasmine Trinca e altre belle e prezzolate si confidano segreti, paure, illusioni e delusioni, mentre la clientela maschile si innamora o violenta, così come capita. Bonello scrive e dirige, ma la cosa migliore che fa lo riporta, piuttosto, agli inizi da musicista: la colonna sonora da lui stesso composta - e le pregevoli aggiunte – è l'unico souvenirs che ci porteremmo a casa. Il resto è stasi di corpi e carne, scambio di sessismo e paternalismo, turbine di sifilide – tocca a una nostra conoscenza, nonostante sia l'unica a non spogliarsi… – e mercimonio. Si parla molto, troppo, e con scarso interesse, mentre davanti agli occhi si formula un inconfessabile desiderio: aridatece Paprika di Tinto Brass, ebbene sì.
Bonello è furbo, mette in campo registi-attrici quali Noemie Lvovsky e registi-registi quali Xavier Beauvois, e - con dichiarata attualizzazione nel finale - cerca il ping-pong tra quel passato in casa (chiusa) e il presente in strada, sul basso sordo e continuo della prostituzione. Furbizia, appunto, perché la non sincerità ha l'apparenza della verità e qualche strascico citazionistico viene mal ricalcato: dai pittorici Monet, Manet e Courbet a Eyes Wide Shut e Venus Noire, finendo col joker al femminile affidato a una malcapitata prostituta, cui l'amante prediletto estende il sorriso a coltellate.
C'è di più: l'accento calligrafico e iterato su violenza e milieu, gli inserti onirici di sangue e sperma, una regia inspiegabilmente compiaciuta, che addirittura risfodera lo splitscreen, persi in una mare di noia. Insomma, una casa chiusa, anche e soprattutto, al cinema. O, per rispolverare Manzoni Piero, fumo d'artista: ma senza tracce d'arrosto.