Lo so: bisogna apprezzare le atmosfere care a Taylor Sheridan, regista, sceneggiatore e inventore di serie come Yellowstone, 1883, 1923, Lioness, Tulsa King e infinite altre; altrimenti Landman, la miniserie in dieci puntate che stanno dando su Paramount+, potrebbe annoiare.

Non so se il 54enne cineasta texano sia repubblicano, probabilmente sì, mi basterebbe che non fosse trumpiano in senso stretto; ma certo possiede un modo unico di concepire le sue storie squisitamente americane, condite di violenza e soprusi, ma anche interessanti nello sguardo antropologico, per nulla convenzionale, su un certo mondo western di ieri e di oggi.

Protagonista di Landman è il 69enne Billy Bob Thornton, che fu marito di Angelina Jolie per un breve periodo oltre che attore specializzato in ruoli un po’ da schizzato/depresso. Cappellone in testa, jeans svuotati nel sedere e andatura dinoccolata sugli stivali da cowboy, incarna Tommy Norris, una specie di “aggiustatutto”: non un killer, sia chiaro, ma l’uomo di fiducia di una compagnia petrolifera, ingaggiato per risolvere le situazioni critiche nelle proverbiali “boom town” del Texas occidentale che gravitano attorno all’industria dell'oro nero.

Non a caso la serie è ispirata al popolare podcast Boomtown di Imperative Entertainment e Texas Monthly, adattato per la tv da Sheridan insieme a Christian Wallace. Thornton ormai sembra una specie di Humphrey Bogart biondiccio e acciaccato: il suo Tommy è un sopravvissuto, pieno di debiti e sarcastico nei confronti del prossimo, che rischia ogni volta di diventare un capro espiatorio se un pozzo esplode a causa di vecchie valvole. Sa trattare, rischiando la vita, con un boss messicano della droga o azzittire, con sibilante sarcasmo, un ricco “ranchero” che pretende troppo e non sa stare al suo posto.

Jacob Lofland in Landman
Jacob Lofland in Landman

Jacob Lofland in Landman

(Emerson Miller/Paramount+)

Nelle prime due puntate, dirette dallo stesso Sheridan, Norris deve fare i conti con: la figlia adolescente che gli porta in casa l’amante, il figlio che ha mollato l’università per lavorare sui pozzi, l’ex moglie che forse vorrebbe riportarselo a letto, soprattutto il suo facoltoso boss che ha spedito sul posto una giovane avvocata elegantona dopo la morte di un’intera squadra di operai messicani, tutti amici suoi.

Birre, whiskey e margaritas, camicie da cowboy, barbecue, iniezioni di testosterone (letteralmente), canzoni country, caldo torrido, corpi bruciati e pick-up giganteschi, soprattutto il capitalismo petrolifero, detto “oil business”, visto come risorsa e dannazione, come ricchezza e devastazione. Tutto molto “american”. Tommy si muove in quell’inferno con cinismo e tenerezza, dipende dalle persone che si ritrova di fronte.

Se dovessi dire che cosa possiede di così particolare Landman, direi tre ingredienti: l’ambientazione, l’osservazione, la drammatizzazione. Sheridan e il co-regista neozelandese Stephen Kay tengono insieme il tutto in una chiave coinvolgente, che sbriciola alcune banalità sulle fonti alternative di energia, racconta il potere fondante del petrolio nella società americana, evidenzia la cupa realtà delle morti sul lavoro, per non dire di tutto il resto: appunto avidità, affari, razzismo strisciante, lotta di classe, culto del denaro e mitologia western, tenerezza e crudeltà.

Quello di Landman sembra un mondo lontano, quasi irreale per noi italiani, ma non è una versione aggiornata di Dallas, dentro c’è molto di più: certo la puzza del petrolio e l'odore dei dollari, ma anche uno sguardo non peregrino, a volte tragico, sulla Grande Commedia Umana.