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L’importante è finire, cantava Mina. Per finire, suo malgrado, William Friedkin ha scelto l’usato sicuro, ovvero L'ammutinamento del Caine: Corte Marziale (The Caine Mutiny Court-Martial), celebre romanzo (1951) premio Pulitzer e quindi opera teatrale dello statunitense Hermon Wouk, portato infinite volte sul palcoscenico e a più riprese adattato per lo schermo - anche da Robert Altman nel 1988.
Insomma, non ha voluto – potuto? – stupire, almeno nella scelta del soggetto, preferendo accodarsi alla teoria di trasposizioni, ma parimenti reiterando la cifra umana, umanissima della corte marziale.
Da poco approdato sulla piattaforma streaming Paramount +, l’ultimo film di Friedkin è stato presentato postumo alla 80esima Mostra di Venezia nel 2023.
L’autore de L’esorcista (1973) e Il braccio violento della legge (1971, Oscar migliore regista l’anno seguente) è morto lo scorso 7 agosto all’età di 87 anni, lasciandoci in dote questo dramma giudiziario, sottogenere corte marziale, per cui – le ragioni sono eminentemente assicurative, dato che stava già male – ha potuto beneficiare dell’assistenza sul set del collega Guillermo Del Toro.
Cast eccellente con Kiefer Sutherland, Jason Clarke e Jake Lacy, Friedkin anche sceneggiatore ha chiesto a fotografia (Michael Grady) e montaggio (Darrin Navarro) di tenere desta l’attenzione sul banco degli imputati, e con licenza di controcampo morale, seguendo il tenente della marina statunitense Barney Greenwald (Jason Clarke) intento a difendere dall'accusa di ammutinamento il parigrado Stephen Maryk (Jake Lacy), responsabile di aver sollevato dal comando, per presunti segni di instabilità mentale, il capitano di corvetta Philip F. Queeg (Kiefer Sutherland) durante una tempesta nell’ostile stretto di Hormuz.
Friedkin segue per filo e per segno Wouk, esaltando il grado zero della grammatica cinematografica e insieme il grado zero della convivenza umana, ossia decrittando infingimenti, prevaricazioni, delegittimazioni.
Ancorché marziale, una corte morale, chiamata a sanzionare un ammutinamento alle ragioni del vivere insieme più che agli ordini del superiore: Friedkin, preclaro esperto di conflitti latenti e suspense incipiente, ci sguazza con garbo ed eleganza, asseverando genere legale e verdetto antropologico.
In piena continuità, e eredità, poetico-stilistica: il fragile e ambiguo Sutherland, la burrasca esistenziale e il braccio, una volta tanto, anti-violento della legge. Già, l’importante è finire bene.