È l’Éric Rohmer di Buenos Aires, Marco Berger. La limpidezza del gesto, il paradigma della semplicità, l’attenzione ai comportamenti, la leggerezza del tocco, i budget contenuti, l’autenticità restituita con naturalezza. Come tutti i grandi autori, Berger fa sempre lo stesso film: a cambiare sono i corpi in campo ma non ciò che pensano e provano. E l’intimità – non l’intimismo – non è una posa, perché allinea il nostro sguardo a quello dei personaggi, sa lasciarsi sorprendere dai loro movimenti ed entrare nella loro mente. Personaggi che sono abitanti di una sorta di testo unico (undici lungometraggi in quindici anni), in cui le singole storie dialogano alla luce del sole e, soprattutto, si crede all’idea che tutti, prima o poi, possano incontrarsi in qualche estate, la stagione che è “promessa e nostalgia” ed è inaccettabile che finisca, incrociando destini e possibilità al crocevia dei desideri più profondi.

Classe 1977, già autore totale (dei suoi film è anche sceneggiatore e montatore), tanto prolifico quanto nascosto al pubblico italiano, Berger arriva per la prima volta sugli schermi italiani grazie a Cesare Petrillo e Circuito Cinema con L’amante dell’astronauta, al momento sua penultima regia. Ed è una scelta giusta, perché rispetto ai più malinconici e laconici Hawaii e Un rubio, è accessibile e luminoso come Taekwondo, una commedia romantica queer (“Il tempo è troppo veloce per un romantico come me”) l’amore segue regole che sfuggono agli schemi dei benpensanti.

L'amante dell'astronauta
L'amante dell'astronauta

L'amante dell'astronauta

Due protagonisti: Pedro, apertamente gay (“astronauta”: l’allusione al vocabolario spaziale attraversa tutto il film, dai “marziani” al “super-razzo” fino a “veder le stelle”), e Maxi, etero e single, che si sono conosciuti da piccoli (elemento ricorrente) e si ritrovano alle soglie dei trent’anni, in una casa in cui trascorrono le vacanze insieme ad altri amici. Si piacciono, si fanno simpatia, vogliono condividere i giorni che passano pigri e lasciano in bocca il gusto del sale: fingono di essere fare i fidanzati e gli altri ci cascano, compresa l’ex ragazza di Maxi, ma il gioco si fa duro, a forza di toccarsi qualcosa succede e l’attrazione si spoglia dello scherzo per rivelarsi imprevedibilmente fatale.

A suo modo compendio dei temi cari al regista (la solitudine maschile, la riappropriazione della sessualità, la costruzione di un amore), L’amante dell’astronauta fa della libertà professione di fede: pur essendo lavoro meno “esplicito” dei precedenti (per intenderci: si vede quasi niente), abbraccia un lessico sentimentale che rifiuta l’ipocrisia in nome della veridicità (dare un nome alle cose per non averne paura ed emanciparsi dai conformismi borghesi), lascia che l’erotismo si verbalizzi senza cedere al voyeurismo (è anche un modo per sottolineare il crinale tra la voglia di scoprirsi insieme e il timore di restarci incastrati: “Che succede se ti innamori di me? Ti spezzerei il cuore”, sempre col sorriso), plasma l’immaginazione per far capire quanto sia impossibile governare i desideri (il primo approccio a letto è un sogno a occhi aperti).

E togliendo il wifi alla casa, Berger recupera il videonoleggio per omaggiare il cinema che gli piace e rivendicarlo come paratesto sentimentale e strumento per prendere coscienza di sé (si vedono dvd di Kieślowski, Ozon, Stand by Me, Lo squalo, si parla di Blade Runner e Una vita al massimo, si usano Edward mani di forbice e Man on the Moon per dire e non dire). Essenziale nello stile, spudorato nella vitalità, con un finale che scalda il cuore.